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Rivelazione e conoscenza. Il contributo di Karl Barth
Università di Urbino
(Article from the symposium organized by International Institute Jacques Maritain, Trieste, in frame of Forum Orient-Occident in May 2004 in Rozzaco, Italy)
1. Osservazioni preliminari
Il concetto di rivelazione, com’è stato osservato in più occasioni[1], assume un rilievo indiscusso nella teologia cristiana contemporanea sia cattolica che evangelica al punto che, sotto certi aspetti, si può parlare addirittura di una sua inflazione[2]. Le motivazioni storiche di un simile rilievo sono sicuramente complesse anche se, sotto un profilo generale e di primo acchito, esso appare come un moto di reazione contro il tentativo illuministico di ricondurre entro i limiti della ragione la conoscenza di Dio e più in generale contro la critica che la filosofia della religione moderna ha avanzato verso il soprannaturalismo. La rivalutazione di questo concetto nella teologia contemporanea, tuttavia, non ha assunto soltanto un significato polemico, ma ha rappresentato anche la via privilegiata per riconsiderare criticamente alcuni irrigidimenti dottrinali tipici della teologia moderna come il biblicismo in ambito protestante o l’intellettualismo in ambito cattolico[3]. Si può affermare, quindi, che il rilievo del concetto di rivelazione nella teologia contemporanea assolve alla specifica funzione di ribadire, tanto ad extra quanto ad intra, quello che appare come il principio fondamentale di ogni conoscenza teologica autentica, e cioè che è possibile conoscere Dio soltanto se Dio stesso si dà a conoscere.
Fra i teologi del Novecento che maggiormente hanno contribuito a conferire al concetto di rivelazione un ruolo preponderante, figura, senz’ombra di dubbio, Karl Barth. Attenendoci al tema del nostro convegno, cercheremo di delineare sinteticamente, nei suoi diversi aspetti, il rapporto che egli istituisce fra rivelazione e conoscenza, accennando in conclusione ad alcune delle questioni critiche che esso solleva.
2. La rivelazione come automanifestazione di Dio
Com’è noto, uno dei motivi portanti dell’intera opera barthiana è la polemica, a tratti aspra, contro quello che egli chiama “neo-protestantesimo”, cioè contro quell’interpretazione del messaggio cristiano in chiave antropologica che, secondo lo stesso Barth, può esser fatta risalire all’impostazione teologica di Schleiermacher e che connota, in varie forme, lo sviluppo della teologia evangelica nel XIX secolo. Questa polemica, che nella seconda edizione del Römerbrief (1922) era veicolata attraverso il tema platonico-kierkegaardiano dell’“infinita differenza qualitativa” tra Dio e mondo e la critica al concetto di religione fondata su un’interpretazione in chiave anti-psicologistica della fede, assume nella fase successiva al Römerbrief un contorno teologicamente più definito in cui il concetto di rivelazione gioca un ruolo centrale. Com’è stato messo in rilievo da molti interpreti[4], la centralità di questo concetto è il frutto del superamento del dualismo platonico che nel Römerbrief era utilizzato come precomprensione filosofica per delineare il rapporto paradossale tra eternità e storia, e al rilievo determinante che nella riflessione di Barth assume, dopo il 1922, la dottrina dell’incarnazione e della trinità. In particolare, il senso di quest’ultima è da lui compendiato nella formula dell’«insopprimibile soggettività di Dio nella sua rivelazione»[5], una formula indubbiamente originale con la quale Barth intende esprimere l’elemento speculativo per lui caratterizzante della teologia cristiana: il fatto cioè che la rivelazione di Dio nella storia consista nell’automanifestazione di Dio come soggetto, un’automanifestazione nella quale la soggettività di Dio non viene eliminata dal processo del suo oggettivarsi mondano.
Lo svolgimento di questa intuizione e l’articolazione delle sue conseguenze sono già ben delineate nella Christliche Dogmatik im Entwurf, l’opera del 1927 che offre una prima esposizione sistematica del percorso svolto dopo il Römerbrief. Qui il tema della rivelazione appare all’interno di una preliminare considerazione sulla parola di Dio. Barth muove dall’assunto perentorio che ogni discorso su Dio in teologia debba iniziare dalla parola che viene predicata nella chiesa, la quale, sulla base della testimonianza scritturistica, si riferisce al Dio rivelatosi in Gesù Cristo e non ad un’idea astratta della divinità. Questo assunto di tipo realistico, per il quale, come si è detto, la teologia diventa possibile e legittima soltanto a partire dal Dio annunziato nella chiesa, viene tuttavia messo in relazione dialettica con un altro assunto di tipo idealistico. La parola predicata dalla chiesa è parola di Dio, ma lo è in forma mediata, giacché si fonda sulla parola di Dio scritta, la quale “è fondata per parte sua in un Terzo che le sta dietro” e che è appunto “la rivelazione di Dio”[6]. La parola di Dio in senso proprio coincide perciò con la rivelazione di Dio, ovvero con quella revelatio immediata che è “il discorso originario, autentico di Dio senza il medium della parola scritturistica, senza il servizio della chiesa, il discorso di Dio in sé (…)”[7]. La rivelazione di Dio è dunque la prima forma della parola di Dio nell’ordine ontico, sebbene sia la terza in quello conoscitivo, ed è appunto la sua “forma eterna”[8] che ammette, come forme storiche condizionate, quella scritturistica e quella predicata. Ciò che distingue la prima dalle seconde non è il fatto che Dio cessi in queste ultime di essere soggetto, ma il fatto che lo faccia attraverso un medium mondano, il quale fa sì che la sua rivelazione sia indisgiungibile dal suo nascondimento. In breve, come Barth afferma con una delle sue formulazioni inequivocabilmente dialettiche, Dio, nella sua rivelazione storica, “si rivela nel nascondimento, e si nasconde nella rivelazione”[9].
Questa concezione presenta anzitutto una conseguenza critica riguardo al tema della conoscenza. Se la rivelazione consiste in un’automanifestazione di Dio in cui egli rimane soggetto, di essa l’uomo non potrà conseguire alcuna conoscenza o certezza, se con conoscenza o certezza s’intende, secondo la via intrapresa dalla filosofia moderna, la riduzione dell’oggetto ad una realtà coscienziale. Infatti, poiché la rivelazione è un atto di cui Dio è soggetto, esso in quanto tale non può diventare un contenuto coscienziale, continuando piuttosto a “sporger fuori” rispetto alla coscienza. In questo modo Barth intende contrastare, evidentemente, quella che lui chiama la “possibilità fichtiana”, cioè l’affermazione del principio di immanenza coscienziale che risolve la correlazione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto a favore del primo termine negando il secondo. Rimane, però, il problema di come la rivelazione di Dio diventi principio di conoscenza. Ebbene, a questo riguardo la risposta di Barth è netta: dal momento che Dio può soltanto mostrarsi da sé, tanto la realtà quanto la conoscenza della rivelazione riposano in se stesse. Per questo la conoscenza (Erkenntnis) che l’uomo ha della rivelazione è propriamente il riconoscimento o l’approvazione (An-erkenntnis) della sua realtà: “Noi non conosciamo la parola di Dio attraverso noi stessi e in noi stessi, ma la conosciamo attraverso Dio e in Dio. Oppure, detto diversamente: noi non la conosciamo, ma in essa siamo conosciuti. Oggetto del nostro conoscere è il nostro esser-conosciuti-in-essa”[10]. Come si vede di una conoscenza o di una certezza in senso vero e proprio a questo riguardo non è possibile parlare: non a caso Barth qualifica la conoscenza della rivelazione come un “rischio”, che deve rimanere tale proprio perché non ammette una fondazione di principio.
3. La rivelazione come principio della conoscenza teologica
Prima di tornare su questo problema, affrontando la trattazione che Barth ne fa della Kirchliche Dogmatik, è utile considerare brevemente il senso dell’interpretazione che egli ha dato della prova anselmiana del Proslogion nel famoso testo del 1931 dal titolo Fides quaerens intellectum[11] e che si comprende adeguatamente proprio a partire dalla posizione che abbiamo brevemente richiamato.
Non è possibile, ovviamente discutere in questa sede la validità dell’interpretazione anselmiana di Barth, ma soltanto metterne in luce alcuni aspetti per quanto riguarda il problema che stiamo trattando. Secondo Barth troviamo in Anselmo una concezione della fede che è tipica della chiesa antica (ma, egli aggiunge, anche della Riforma e dell’ortodossia protestante), per la quale il credere non è in alcun modo inteso “come un tendere in Deum alogico, irrazionale, quasi disincarnato in rapporto alla conoscenza”[12]. L’atto soggettivo del credere, infatti, è in relazione con l’ambito conoscitivo già nella misura in cui sorge dall’ascolto del Credo oggettivo, cioè dall’annuncio della parola di Dio, esattamente come presa di conoscenza di una vox significans rem, cioè “di un nesso di senso espresso in forma logico-grammaticale, che soltanto in quanto udito, e come tale compreso, si trova in intellectu”[13]. La fede, tuttavia, non è soltanto un prender conoscenza (Kenntnisnahme), ma il riconoscimento (Anerkenntnis) dell’oggetto significato dalla parola. E in effetti, secondo Barth, la teologia di Anselmo presuppone tanto il “prender conoscenza” quanto il “riconoscimento” del Credo oggettivo, cosicché il credere si rapporta all’intelligere soltanto nella misura in cui quest’ultimo ha la funzione di “percorrere il tratto intermedio fra l’avvenuta presa di conoscenza e il riconoscimento ugualmente già avvenuto”[14]. In altri termini, Anselmo concepirebbe l’intelligere come un’operazione interna alla fede, un’operazione che “si attua ri-pensando (nachdenken) il Credo precedentemente detto e precedentemente riconosciuto”[15]. Così, l’intellectus fidei non sarebbe altro che una “positiva meditazione delle affermazioni di fede”[16] che il teologo non dovrà giustificare, ma “comprendere proprio nella loro incomprensibilità”[17], una formula, questa, tipicamente barthiana che in questo contesto, come in altri, rimanda alla costitutiva inadeguatezza delle affermazioni teologiche riguardo al loro oggetto, giacché “solo Dio stesso possiede, in senso stretto, un concetto di Dio”[18].
L’argomento che Anselmo sviluppa nel Proslogion non sarebbe dunque per Barth rivolto ad extra, cioè ai non credenti, bensì ad intra, cioè a coloro che già hanno preso conoscenza e riconosciuto il Credo oggettivo e che tuttavia hanno il problema di rispondere alle domande che esso ha sollevato in loro. Nel caso specifico la domanda è “se e fino a qual punto l’oggetto del pensiero, per quanto sia davvero il suo oggetto e non da risolvere in un mero pensiero, gli stia al contempo di fronte, se e fino a quale punto esso, pur appartenendo al cerchio interno del pensiero, ‘fuoriesca’ al contempo nel cerchio esterno del non-soltanto-pensato, dell’esistente per sé indipendente rispetto al pensiero”[19]. Ebbene, a questa domanda Anselmo risponde con la formula id quo maius cogitari nequit che secondo Barth non costituisce un’ingegnosa trovata logica, ma una vera e propria rivelazione del nome di Dio, una rivelazione che non si trova, così formulata, nella Scrittura, ma che si giustifica in Anselmo per il fatto che “accanto alle affermazioni esplicite dei testi della rivelazione, vi sono conseguenze derivanti direttamente da quelle alle quali si accordava la stessa dignità”[20]. Anche in questo caso, dunque, il nome di Dio tratto dal Credo costituirebbe il presupposto per dare risposta alla domanda sull’esistenza di Dio: “È a partire da questo punto del Credo – afferma Barth – che si deve rendere l’altro punto, l’esistenza di Dio – non già credibile (lo è di per sé), ma intelligibile”[21].
A prescindere da quella che è la pertinenza o meno di questa discussa interpretazione di Barth, è interessante osservare come egli abbia ritenuto di scorgere nel pensiero di Anselmo un percorso divenuto per lui stesso esemplare. Il percorso consiste nell’abbandono, come problema della teologia, di una riflessione preliminare sulla condizione di possibilità degli articoli del Credo; nella fattispecie in Anselmo il progresso si sarebbe realizzato nel passaggio dal Monologion al Proslogion dove questi non soltanto avrebbe adeguatamente distinto, come invece non avrebbe fatto nella prima opera, il problema dell’essenza possibile di Dio da quello della sua esistenza, ma avrebbe dato risposta alla questione dell’esistenza di Dio sulla base dell’essenza di Dio presupposta esclusivamente per fede. Questo progresso sarebbe dunque da concepire, propriamente, come una purificazione della razionalità teologica da qualsiasi elemento di tipo filosofico. L’argomento anselmiano, infatti, non afferma nulla sulla natura di Dio, ma semplicemente mostra che, riconosciuta l’essenza di Dio per fede, non si può pensare la sua esistenza in intellectu senza anche pensarla in re.
Barth ha fatto sua questa impostazione ritenendola normativa per l’intera conoscenza teologica. Quest’ultima, infatti, non muove da una domanda arbitraria dell’uomo sulla rivelazione, ma dalla rivelazione stessa che assume la forma di una risposta alla quale può e deve seguire una corrispondente domanda. Nei Prolegomeni alla Kirchliche Dogmatik[22], Barth ha chiarito bene questo principio affermando, proprio con riferimento ad Anselmo, che la corrispondenza dell’ordine conoscitivo a quello ontico non può che istituirsi sulla base del riconoscimento dell’anteriorità di quest’ultimo e di conseguenza l’atto del comprendere (Verstehen) dovrà essere inteso propriamente come un seguire (Nachfolgen) l’oggetto della comprensione. Ne consegue che se poniamo il problema della possibilità dell’incarnazione di Dio dobbiamo porlo a partire dalla realtà stessa dell’incarnazione in Cristo e dalla sua realtà così come essa è, dunque dalla sua necessità. Infatti, nota Barth, “ciò che compete a Dio noi non possiamo dirlo in base ad una precomprensione (Vorverständnis), ma in base ad una postcomprensione (Nachverständnis) con la quale non pronunciamo alcun giudizio su ciò che per Dio era necessario, ma solo un riconoscimento (Anerkennung) di ciò che egli ha evidentemente ritenuto necessario”[23]. La conoscenza teologica vive dunque del reciproco rimando tra risposta e domanda, tra realtà e possibilità, per quanto si tratti di un rimando che non assume la forma della correlazione (come sarà per esempio in P. Tillich), dacché il primo termine detiene un’assoluta preminenza, mentre il secondo non gode di alcuna autonomia, bensì testimonia semplicemente che la realtà che si svela nella rivelazione, la risposta che ci viene incontro attraverso di essa, non ci è semplicemente estranea, ma ci riguarda profondamente.
4. Il senso conoscitivo-esperienziale della fede
Dopo questo breve accenno alla funzione metodologica che la rivelazione assume per quanto la riguarda la conoscenza teologica, ritorniamo al problema più generale del rapporto tra rivelazione e conoscenza. Se la rivelazione è, come Barth pensa, un atto esclusivo di Dio, la conoscenza di essa non potrà che essere concepita come l’atto corrispondente della sua approvazione. Nel § 6 della Kirchliche Dogmatik[24], Barth offre una definizione del significato di “conoscenza” proprio in questi termini: “Noi comprendiamo come conoscenza (Erkenntnis) di un oggetto da parte dell’uomo la conferma del sapere che egli ha di quest’oggetto riguardo al suo esserci, ovvero alla sua esistenza, e al suo esser-così (Sosein), ovvero alla sua essenza. Per ‘conferma del sapere’ intendiamo il fatto che la realtà dell’oggetto in questione (…) diventa vero anche per l’uomo. Il sapere di questo oggetto viene così a determinare la sua esistenza in un modo che da casuale diviene necessario e da esterno interno. Colui che conosce ha a che fare con l’oggetto conosciuto, non esiste più senza di esso, ma con esso. In quanto lo pensa, egli deve pensarlo con tutta la fiducia possibile come una realtà vera, vera nel suo esserci e nel suo esser-così”[25].
Come si vede, in questa definizione la conoscenza indica l’adesione che il soggetto dà all’esistenza dell’oggetto e al suo essere per come esso si manifesta. La conoscenza della rivelazione di Dio non fa eccezione a questa regola generale, anzi ne costituisce il caso esemplare. Sollevare la questione di come gli uomini possano conoscere la parola di Dio non può quindi significare né mettere in dubbio la realtà di questa conoscenza, né astrarre da essa: significa semplicemente che la rivelazione, dandosi a conoscere all’uomo, diventa per questi un evento che lo riguarda nel suo essere. Per questo motivo la conoscenza della rivelazione è qualificabile, in modo più pertinente, come un’esperienza (Erfahrung). Con ciò Barth si riferisce indubbiamente ad una nozione di esperienza che J. Mouroux definirebbe “strutturata”[26], ovvero ad un’esperienza che coinvolge l’intero ambito delle facoltà razionali o sensoriali umane e che non presenta, in prima istanza, un significato antiintellettualistico. Ciò è provato dal fatto che non si tratta di un’esperienza meramente soggettiva e psicologicamente connotata, ma di un’esperienza originariamente correlata ad un oggetto, sebbene ad un oggetto peculiare che non è propriamente un oggetto, bensì un soggetto. Quello che Barth intende con ciò non è tuttavia un processo di adeguamento dell’intelletto alla cosa, ma appunto una conferma nell’esistenza individuale di una realtà che si è automanifestata. Non ci troviamo di fronte, pertanto, ad un atto conoscitivo autonomo dell’uomo, ma piuttosto ad una presa d’atto, ad un assenso in cui ritroviamo l’essenza stessa della fede. La fede, infatti, è quell’esperienza in cui l’uomo, venendo a conoscenza della rivelazione, rimane sconosciuto a se stesso, ovvero acquista una certezza che non si tramuta in certezza di sé. Come Barth afferma, la fede è un’esperienza in quanto è un “fare inaccessibile a tutta la pura teoria”[27], in cui l’uomo sperimenta la propria corrispondenza alla parola di Dio e si scopre soggetto a partire dall’oggetto conosciuto. Così, nella sostanza, la fede è per Barth un’azione di Dio stesso nel credente, un’opera dello Spirito che testimonia “la rivelazione come rivelazione avvenuta per noi”[28]. In questo senso, la fede è radicalmente scissa dal sapere, se per sapere s’intende una conoscenza autonoma che l’uomo sarebbe in grado di affiancare al sapere della rivelazione che ricaviamo dal suo riconoscimento/approvazione suscitato in noi dallo Spirito. Nemmeno il momento in cui la realtà oggettiva della rivelazione diviene realtà soggettiva può essere contemplato e reso oggetto di analisi, cosicché nemmeno la coscienza credente, nella forma di un’analysis fidei, può divenire fattore di conoscenza. Poiché la realtà soggettiva della rivelazione non è altro che una ripetizione in noi della sua realtà oggettiva, essa non può, infatti, secondo Barth, diventare dal punto di vista concettuale un tema a se stante.
5. Rivelazione e conoscenza: alcune considerazioni
Tracciato brevemente questo quadro, in che senso è dunque possibile parlare di un rapporto tra rivelazione e conoscenza in Barth? Cerchiamo di rispondere a questa domanda con alcune ulteriori considerazioni e con una breve riflessione conclusiva di carattere critico. Abbiamo visto come per Barth la rivelazione costituisca il principio di ogni conoscenza teologica. La rivelazione, infatti, è “l’autosvelamento di Dio in cui il Dio che per sua essenza non si svela all’uomo si rende partecipe a questi”[29]. Questo significa che, pur essendo Dio incomunicabile in se stesso, nella sua rivelazione egli si è reso presente all’uomo in modo oggettivo, cioè disponibile per essere intuito e compreso. Nella sezione della Kirchliche Dogmatik dedicata al problema della conoscenza di Dio[30], Barth distingue, in effetti, fra un’oggettività primaria, in riferimento all’essere di Dio in sé, e un’oggettività secondaria, in riferimento all’essere di Dio nella sua rivelazione. L’autodimostrazione (Selbstbeweis) di Dio che ha luogo nella sua oggettività secondaria corrisponde pienamente alla sua oggettività primaria, cosicché si deve affermare che nella prima Dio ha rivelato la totalità del proprio essere[31]. Tuttavia, poiché lo ha fatto attraverso un medium mondano, la conoscenza che di essa l’uomo può avere è soltanto indiretta e questo che fa sì che l’essere di Dio rimanga per l’uomo un mistero. Ebbene, è proprio questa coesistenza paradossale tra rivelazione e mistero a costituire secondo Barth il tratto essenziale e insuperabile della conoscenza umana di Dio. Da una parte, infatti, nella rivelazione di Dio la correlazione fra svelamento e disvelamento è definitivamente risolta a favore del primo termine e ciò comporta che in virtù della rivelazione l’uomo diventi capace di comprendere ed esprimere l’essere di Dio. Dall’altra, è necessario affermare che il mistero accompagna, determina e limita la conoscenza di Dio che conseguiamo grazie alla rivelazione. Questo significa, più precisamente, che il nascondimento di Dio appartiene alla sua rivelazione non soltanto come terminus a quo, ma anche come terminus ad quem, dal momento che ogni autentica conoscenza di Dio ha inizio con il riconoscimento della sua incomprensibilità e termina con essa. In questo modo Barth viene ad ammettere che la nostra conoscenza di Dio è una conoscenza per analogia, intendendo con ciò che, in virtù della rivelazione, risultiamo in grado di corrispondere realmente anche se parzialmente per mezzo dei nostri concetti e delle nostre parole all’essere di Dio. Realmente, perché si tratta di concetti e di parole che non esprimono l’essere di Dio soltanto in modo figurato o simbolico, rimanendo esterni ad esso alla maniera di un “come se”; parzialmente, perché l’inadeguatezza naturale del nostro intelletto e del nostro linguaggio in relazione all’essere di Dio non viene mai trasformata con la rivelazione in perfetta adeguazione.
Quali che siano le molte questioni critiche che questa prospettiva di Barth solleva[32], è certo che in essa il principio per il quale Dio non diventa conoscibile se egli stesso non si dà a conoscere è assunto in senso radicale. La rivelazione, intesa come la singolare, concreta automanifestazione di Dio nella storia, è criterio a se stessa e non sopporta di essere a sua volta dimostrata; piuttosto è essa stessa prova[33]. La conseguenza più vistosa di questa concezione è, com’è noto, il rifiuto della teologia naturale e dell’analogia entis. Le motivazioni di questo rifiuto sono certamente complesse: in estrema sintesi si può dire che Barth considera la teologia naturale come una fonte alternativa di conoscenza rispetto a quella rivelata, tale da entrare in contraddizione con quest’ultima. La teologia naturale viene costruita sulla base della possibilità naturale dell’uomo di concepire qualcosa come Dio, una possibilità che tuttavia, secondo Barth, a motivo del peccato originale, è oramai irrimediabilmente corrotta e non può dare luogo che ad una conoscenza illusoria di Dio. La fortuna della teologia naturale nella storia della teologia occidentale è dovuta a quello che egli chiama un utilizzo “pedagogico”, ovvero al fatto che tradizionalmente la teologia naturale ha costituito un preambulum della teologia rivelata e dunque una propedeutica razionale alla conoscenza per fede. Questa funzione, tuttavia, è, per così dire, distorta dal punto di vista comunicativo, giacché in essa secondo Barth il teologo mette tra parentesi il principio normativo della rivelazione per utilizzare un altro principio che serve soltanto a creare un punto d’aggancio provvisorio con l’interlocutore che poi deve essere necessariamente superato in vista dell’autentico obiettivo rappresentato, appunto, dalla conoscenza del Dio rivelatosi in Gesù Cristo. Il motivo fondamentale del rifiuto della teologia naturale è dunque dato dal fatto che Barth intende quest’ultima essenzialmente come un atto in cui l’uomo trascende se stesso in direzione di un assoluto che egli arbitrariamente chiama Dio e di cui altrettanto arbitrariamente dichiara l’identità con il Dio di Gesù Cristo. Nella realtà, il Dio della teologia naturale non è altro secondo Barth che l’immagine ingrandita dell’uomo in cui non ha luogo nessun incontro reale con l’assolutamente Altro, ma semplicemente la reduplicazione di se stesso. La dipendenza di questa tesi dalla critica della religione feuerbachiana è stata tematizzata dallo stesso Barth e dimostra come egli intenda la teologia naturale non più nell’accezione che le veniva attribuiva nell’antichità, dai presocratici fino allo stoicismo, e cioè conoscenza della vera natura di Dio, ma piuttosto in quella attribuitale dai moderni, e cioè conoscenza di Dio secondo la natura dell’uomo. In altri termini, il concetto di teologia naturale che Barth rifiuta è fortemente influenzato da quello di religio naturalis presente nel deismo illuministico e illecitamente traspostosi in ambito teologico.
Questa comprensione o questa incomprensione della teologia naturale possiede però anche una motivazione interna alla stessa teologia barthiana: intendendo la rivelazione come singolare automanifestazione della soggettività divina nella storia e assumendola come principio esclusivo della conoscenza di Dio, egli è portato a concepire la creazione come il “fondamento esterno del patto” tra Dio e uomo, e cioè, per così dire, come la cornice in cui ha luogo la rivelazione di Dio e la storia della salvezza. Le realtà creaturali, così, non brillano di luce propria ma soltanto di luce riflessa come accade, per usare un’immagine che Barth stesso usa, nel caso dei catarifrangenti posti ai lati della strada. Con ciò Barth non nega la possibilità di una rivelazione generale[34], poiché negarla significherebbe limitare arbitrariamente la potenza di Dio e nemmeno nega che, anche dal punto di vista biblico, sia legittimo parlare di una rivelazione di Dio nella natura, tuttavia considera la prima una semplice possibilità con la quale la teologia non può fare i conti e la seconda come una sorta di eco della voce o di riflesso della luce che proviene dalla rivelazione storica in Gesù Cristo, avente l’esclusiva funzione di confermare l’accadimento di quest’ultima[35].
Ciò detto, ci sembra di utile fare due osservazioni conclusive sul contributo di Barth al tema del rapporto fra rivelazione e conoscenza: in primo luogo, è indubbio che egli ha liberato il concetto di rivelazione da una pregiudiziale di tipo biblicistico o intellettualistico. La rivelazione non rimanda in prima istanza all’ispirazione scritturistica né ad una conoscenza dottrinale necessaria alla salvezza, ma all’automanifestazione dell’essere di Dio in Gesù Cristo e della sua grazia salvifica. Questo elemento ha trovato un’indubbia valorizzazione nella teologia cattolica del Novecento e anche una ricezione magisteriale con il Vaticano II[36]. In secondo luogo, la comprensione del concetto di rivelazione come evento storico singolare e concreto, se da una parte giustifica molte delle espressioni polemiche che Barth avanza a proposito dell’utilizzo in chiave razionalistica della teologia naturale, dall’altra è responsabile dell’inavvertenza del problema critico che quest’ultima pone. E cioè del fatto che se è vero che la rivelazione storica di Dio in Gesù Cristo non ammette condizioni di possibilità, non altrettanto si deve dire per la conoscenza che l’uomo ha di essa. In questo caso la condizione di possibilità, come ha osservato H. Bouillard[37], sta nel fatto che l’uomo accede alla rivelazione storica di Dio possedendo già una nozione di Dio o del divino senza la quale egli non potrebbe nemmeno stabilire di essere di fronte alla rivelazione del vero Dio. È proprio la tematizzazione di questa nozione preliminare nell’ambito dell’antropologia filosofica e della metafisica a permettere di considerare il fenomeno della fede nella sua relazione non estrinseca alla conoscenza e inoltre di arginare un utilizzo criticamente incontrollato del concetto di rivelazione e dell’impressione ad esso connessa di autoritarismo. Sotto questo punto di vista, il rimprovero di “positivismo della rivelazione” che D. Bonhoeffer ha rivolto a Barth, seppur ingiusto nella sostanza, ha indubbiamente posto l’accento su un problema reale della teologia barthiana.
[1] Il rimando classico è a P. Eicher, Offenbarung. Prinzip einer neuzeitlicher Theologie, Kösel, München 1977. Per uno sguardo storico d’insieme cfr. H. Waldenfels, La comprensione della rivelazione nel XX secolo, in M. Seybold-H. Wandenfels, Handbuch der Dogmengeschichte, Herder, Freiburg 1971-1977; tr. it. La rivelazione, Augustinus, Palermo 1992, pp. 405 ss. [2] Cfr., in questo senso e con riferimento polemico al rilievo del concetto di rivelazione nella teologia di K. Barth, P. Althaus, Die Inflation des Begriffs ‘Offenbarung’ in der gegenwärtigen Theologie, in “Zeitschrift für systematische Theologie”, 18 (1941), pp. 134-149. [3] Per quanto riguarda la teologia evangelica è stato soprattutto E. Brunner a tematizzare questa necessità, cfr. Offenbarung und Vernunft. Die Lehre von der christlichen Glaubenserkenntnis, Zwingli-Verlag, Zürich 1961, particolarmente pp. 14 ss. [4] Per un riferimento puntuale alla bibliografia critica su questo punto ci permettiamo di rimandare a A. Aguti, La questione dell’ermeneutica in Karl Barth, Dehoniane, Bologna 2001, pp. 57 ss. [5]K. Barth-E. Thurneysen, Briefwechsel. Band II (1921-1930), Theologischer Verlag, Zürich 1974, p. 254. [6] K. Barth, Christliche Dogmatik im Entwurf (1927), Theologischer Verlag, Zürich 1982, p. 65. [7] Ivi, p. 67. [8] Ivi, p. 68. [9] Ivi, p. 107. [10] Ivi, pp. 137-138. [11] Fides quaerens intellectum. Anselms Beweis der Existenz Gottes, Theologischer Verlag, Zürich 19862; tr. it. Anselmo d’Aosta. Fides quaerens intellectum, Morcelliana, Brescia 2001. [12] Ivi, p. 67. [13] Ivi, p. 69. [14] Ibidem [15] Ivi, p. 74. [16] Ivi, p. 82. [17] Ibidem [18] Ivi, p. 75. [19] Ivi, p. 149. [20] Ivi, p. 132. [21] Ivi, p. 133. [22] KD I/2, p. 3 ss. [23] Ivi, p. 41. [24] Cfr. KD I/1, pp. 194 e ss. [25] Ivi, p. 195. [26] J. Mouroux, L’expèrience chrétienne. Introduction a une théologie, Aubier, Paris 1952, p. 26. [27] KD I/2, p. 252. [28] Ivi, p. 258. [29] KD I/1, p. 332 [30] Comprendente i §§ 25-27, contenuti in KD II/1, pp. 1-287. [31] Cfr., per un adeguato commento di questa concezione barthiana, E. Jüngel., Gottes Sein ist im Werden, Mohr, Tübingen 1976 (ed. orig. del 1964); tr. it., L’essere di Dio è nel divenire, Marietti, Genova 1986, pp. 113 ss. [32] Per una discussione critica del concetto di rivelazione in Barth cfr. W. Pannenberg, Systematische Theologie, Band I, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1988; tr. it. Teologia sistematica, vol. I, Queriniana, Brescia 1990, pp. 268 ss. La critica di Pannenberg s’indirizza soprattutto verso la riduzione della complessità semantica del termine “rivelazione” a “parola di Dio” e verso la comprensione esclusiva di quest’ultima come automanifestazione o autocomunicazione di Dio. In particolare, quest’ultimo aspetto non avrebbe secondo Pannenberg “coperture” di tipo esegetico, ma sarebbe il frutto di una precomprensione filosofica, quella idealistico-hegeliana, che Barth avrebbe assunto attraverso la mediazione di teologi come K. Ph. Marheineke. [33] “Compresa in senso cristiano la rivelazione è appunto anche la prova, cioè la prova di Dio portata da lui stesso” (K. Barth, Das christliche Verständnis der Offenbarung. Eine Vorlesung, Chr. Kaiser Verlag, München 1948, p. 7). [34] Già nella Christliche Dogmatik, cit., Barth evocava questa possibilità citando l’espressione di S. Tommaso: “Omne verum, a quocunque dicatur, est a Spiritu sancto” (p. 178). [35] Cfr. KD II/1, pp. 112 ss.; KD IV/3, pp. 158 ss. [36] Per un’ampia trattazione di questo aspetto cfr. W. Kern-H. J. Pottmeyer-Max Seckler (edd.), Handbuch der Fundamentaltheologie. 2. Traktat Offenbarung, Herder, Freibrurg i. B. 1985-1988; tr. it. Corso di teologia fondamentale. Trattato sulla rivelazione, Queriniana, Brescia 1990. [37] H. Bouillard, Connaissance de Dieu. Foi chrétienne et théologie naturelle, Aubier, Paris 1967, pp. 77 ss.
Rivelazione e conoscenza. Il contributo di Karl Barth
Università di Urbino
(Article from the symposium organized by International Institute Jacques Maritain, Trieste, in frame of Forum Orient-Occident in May 2004 in Rozzaco, Italy)
1. Osservazioni preliminari
Il concetto di rivelazione, com’è stato osservato in più occasioni[1], assume un rilievo indiscusso nella teologia cristiana contemporanea sia cattolica che evangelica al punto che, sotto certi aspetti, si può parlare addirittura di una sua inflazione[2]. Le motivazioni storiche di un simile rilievo sono sicuramente complesse anche se, sotto un profilo generale e di primo acchito, esso appare come un moto di reazione contro il tentativo illuministico di ricondurre entro i limiti della ragione la conoscenza di Dio e più in generale contro la critica che la filosofia della religione moderna ha avanzato verso il soprannaturalismo. La rivalutazione di questo concetto nella teologia contemporanea, tuttavia, non ha assunto soltanto un significato polemico, ma ha rappresentato anche la via privilegiata per riconsiderare criticamente alcuni irrigidimenti dottrinali tipici della teologia moderna come il biblicismo in ambito protestante o l’intellettualismo in ambito cattolico[3]. Si può affermare, quindi, che il rilievo del concetto di rivelazione nella teologia contemporanea assolve alla specifica funzione di ribadire, tanto ad extra quanto ad intra, quello che appare come il principio fondamentale di ogni conoscenza teologica autentica, e cioè che è possibile conoscere Dio soltanto se Dio stesso si dà a conoscere.
Fra i teologi del Novecento che maggiormente hanno contribuito a conferire al concetto di rivelazione un ruolo preponderante, figura, senz’ombra di dubbio, Karl Barth. Attenendoci al tema del nostro convegno, cercheremo di delineare sinteticamente, nei suoi diversi aspetti, il rapporto che egli istituisce fra rivelazione e conoscenza, accennando in conclusione ad alcune delle questioni critiche che esso solleva.
2. La rivelazione come automanifestazione di Dio
Com’è noto, uno dei motivi portanti dell’intera opera barthiana è la polemica, a tratti aspra, contro quello che egli chiama “neo-protestantesimo”, cioè contro quell’interpretazione del messaggio cristiano in chiave antropologica che, secondo lo stesso Barth, può esser fatta risalire all’impostazione teologica di Schleiermacher e che connota, in varie forme, lo sviluppo della teologia evangelica nel XIX secolo. Questa polemica, che nella seconda edizione del Römerbrief (1922) era veicolata attraverso il tema platonico-kierkegaardiano dell’“infinita differenza qualitativa” tra Dio e mondo e la critica al concetto di religione fondata su un’interpretazione in chiave anti-psicologistica della fede, assume nella fase successiva al Römerbrief un contorno teologicamente più definito in cui il concetto di rivelazione gioca un ruolo centrale. Com’è stato messo in rilievo da molti interpreti[4], la centralità di questo concetto è il frutto del superamento del dualismo platonico che nel Römerbrief era utilizzato come precomprensione filosofica per delineare il rapporto paradossale tra eternità e storia, e al rilievo determinante che nella riflessione di Barth assume, dopo il 1922, la dottrina dell’incarnazione e della trinità. In particolare, il senso di quest’ultima è da lui compendiato nella formula dell’«insopprimibile soggettività di Dio nella sua rivelazione»[5], una formula indubbiamente originale con la quale Barth intende esprimere l’elemento speculativo per lui caratterizzante della teologia cristiana: il fatto cioè che la rivelazione di Dio nella storia consista nell’automanifestazione di Dio come soggetto, un’automanifestazione nella quale la soggettività di Dio non viene eliminata dal processo del suo oggettivarsi mondano.
Lo svolgimento di questa intuizione e l’articolazione delle sue conseguenze sono già ben delineate nella Christliche Dogmatik im Entwurf, l’opera del 1927 che offre una prima esposizione sistematica del percorso svolto dopo il Römerbrief. Qui il tema della rivelazione appare all’interno di una preliminare considerazione sulla parola di Dio. Barth muove dall’assunto perentorio che ogni discorso su Dio in teologia debba iniziare dalla parola che viene predicata nella chiesa, la quale, sulla base della testimonianza scritturistica, si riferisce al Dio rivelatosi in Gesù Cristo e non ad un’idea astratta della divinità. Questo assunto di tipo realistico, per il quale, come si è detto, la teologia diventa possibile e legittima soltanto a partire dal Dio annunziato nella chiesa, viene tuttavia messo in relazione dialettica con un altro assunto di tipo idealistico. La parola predicata dalla chiesa è parola di Dio, ma lo è in forma mediata, giacché si fonda sulla parola di Dio scritta, la quale “è fondata per parte sua in un Terzo che le sta dietro” e che è appunto “la rivelazione di Dio”[6]. La parola di Dio in senso proprio coincide perciò con la rivelazione di Dio, ovvero con quella revelatio immediata che è “il discorso originario, autentico di Dio senza il medium della parola scritturistica, senza il servizio della chiesa, il discorso di Dio in sé (…)”[7]. La rivelazione di Dio è dunque la prima forma della parola di Dio nell’ordine ontico, sebbene sia la terza in quello conoscitivo, ed è appunto la sua “forma eterna”[8] che ammette, come forme storiche condizionate, quella scritturistica e quella predicata. Ciò che distingue la prima dalle seconde non è il fatto che Dio cessi in queste ultime di essere soggetto, ma il fatto che lo faccia attraverso un medium mondano, il quale fa sì che la sua rivelazione sia indisgiungibile dal suo nascondimento. In breve, come Barth afferma con una delle sue formulazioni inequivocabilmente dialettiche, Dio, nella sua rivelazione storica, “si rivela nel nascondimento, e si nasconde nella rivelazione”[9].
Questa concezione presenta anzitutto una conseguenza critica riguardo al tema della conoscenza. Se la rivelazione consiste in un’automanifestazione di Dio in cui egli rimane soggetto, di essa l’uomo non potrà conseguire alcuna conoscenza o certezza, se con conoscenza o certezza s’intende, secondo la via intrapresa dalla filosofia moderna, la riduzione dell’oggetto ad una realtà coscienziale. Infatti, poiché la rivelazione è un atto di cui Dio è soggetto, esso in quanto tale non può diventare un contenuto coscienziale, continuando piuttosto a “sporger fuori” rispetto alla coscienza. In questo modo Barth intende contrastare, evidentemente, quella che lui chiama la “possibilità fichtiana”, cioè l’affermazione del principio di immanenza coscienziale che risolve la correlazione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto a favore del primo termine negando il secondo. Rimane, però, il problema di come la rivelazione di Dio diventi principio di conoscenza. Ebbene, a questo riguardo la risposta di Barth è netta: dal momento che Dio può soltanto mostrarsi da sé, tanto la realtà quanto la conoscenza della rivelazione riposano in se stesse. Per questo la conoscenza (Erkenntnis) che l’uomo ha della rivelazione è propriamente il riconoscimento o l’approvazione (An-erkenntnis) della sua realtà: “Noi non conosciamo la parola di Dio attraverso noi stessi e in noi stessi, ma la conosciamo attraverso Dio e in Dio. Oppure, detto diversamente: noi non la conosciamo, ma in essa siamo conosciuti. Oggetto del nostro conoscere è il nostro esser-conosciuti-in-essa”[10]. Come si vede di una conoscenza o di una certezza in senso vero e proprio a questo riguardo non è possibile parlare: non a caso Barth qualifica la conoscenza della rivelazione come un “rischio”, che deve rimanere tale proprio perché non ammette una fondazione di principio.
3. La rivelazione come principio della conoscenza teologica
Prima di tornare su questo problema, affrontando la trattazione che Barth ne fa della Kirchliche Dogmatik, è utile considerare brevemente il senso dell’interpretazione che egli ha dato della prova anselmiana del Proslogion nel famoso testo del 1931 dal titolo Fides quaerens intellectum[11] e che si comprende adeguatamente proprio a partire dalla posizione che abbiamo brevemente richiamato.
Non è possibile, ovviamente discutere in questa sede la validità dell’interpretazione anselmiana di Barth, ma soltanto metterne in luce alcuni aspetti per quanto riguarda il problema che stiamo trattando. Secondo Barth troviamo in Anselmo una concezione della fede che è tipica della chiesa antica (ma, egli aggiunge, anche della Riforma e dell’ortodossia protestante), per la quale il credere non è in alcun modo inteso “come un tendere in Deum alogico, irrazionale, quasi disincarnato in rapporto alla conoscenza”[12]. L’atto soggettivo del credere, infatti, è in relazione con l’ambito conoscitivo già nella misura in cui sorge dall’ascolto del Credo oggettivo, cioè dall’annuncio della parola di Dio, esattamente come presa di conoscenza di una vox significans rem, cioè “di un nesso di senso espresso in forma logico-grammaticale, che soltanto in quanto udito, e come tale compreso, si trova in intellectu”[13]. La fede, tuttavia, non è soltanto un prender conoscenza (Kenntnisnahme), ma il riconoscimento (Anerkenntnis) dell’oggetto significato dalla parola. E in effetti, secondo Barth, la teologia di Anselmo presuppone tanto il “prender conoscenza” quanto il “riconoscimento” del Credo oggettivo, cosicché il credere si rapporta all’intelligere soltanto nella misura in cui quest’ultimo ha la funzione di “percorrere il tratto intermedio fra l’avvenuta presa di conoscenza e il riconoscimento ugualmente già avvenuto”[14]. In altri termini, Anselmo concepirebbe l’intelligere come un’operazione interna alla fede, un’operazione che “si attua ri-pensando (nachdenken) il Credo precedentemente detto e precedentemente riconosciuto”[15]. Così, l’intellectus fidei non sarebbe altro che una “positiva meditazione delle affermazioni di fede”[16] che il teologo non dovrà giustificare, ma “comprendere proprio nella loro incomprensibilità”[17], una formula, questa, tipicamente barthiana che in questo contesto, come in altri, rimanda alla costitutiva inadeguatezza delle affermazioni teologiche riguardo al loro oggetto, giacché “solo Dio stesso possiede, in senso stretto, un concetto di Dio”[18].
L’argomento che Anselmo sviluppa nel Proslogion non sarebbe dunque per Barth rivolto ad extra, cioè ai non credenti, bensì ad intra, cioè a coloro che già hanno preso conoscenza e riconosciuto il Credo oggettivo e che tuttavia hanno il problema di rispondere alle domande che esso ha sollevato in loro. Nel caso specifico la domanda è “se e fino a qual punto l’oggetto del pensiero, per quanto sia davvero il suo oggetto e non da risolvere in un mero pensiero, gli stia al contempo di fronte, se e fino a quale punto esso, pur appartenendo al cerchio interno del pensiero, ‘fuoriesca’ al contempo nel cerchio esterno del non-soltanto-pensato, dell’esistente per sé indipendente rispetto al pensiero”[19]. Ebbene, a questa domanda Anselmo risponde con la formula id quo maius cogitari nequit che secondo Barth non costituisce un’ingegnosa trovata logica, ma una vera e propria rivelazione del nome di Dio, una rivelazione che non si trova, così formulata, nella Scrittura, ma che si giustifica in Anselmo per il fatto che “accanto alle affermazioni esplicite dei testi della rivelazione, vi sono conseguenze derivanti direttamente da quelle alle quali si accordava la stessa dignità”[20]. Anche in questo caso, dunque, il nome di Dio tratto dal Credo costituirebbe il presupposto per dare risposta alla domanda sull’esistenza di Dio: “È a partire da questo punto del Credo – afferma Barth – che si deve rendere l’altro punto, l’esistenza di Dio – non già credibile (lo è di per sé), ma intelligibile”[21].
A prescindere da quella che è la pertinenza o meno di questa discussa interpretazione di Barth, è interessante osservare come egli abbia ritenuto di scorgere nel pensiero di Anselmo un percorso divenuto per lui stesso esemplare. Il percorso consiste nell’abbandono, come problema della teologia, di una riflessione preliminare sulla condizione di possibilità degli articoli del Credo; nella fattispecie in Anselmo il progresso si sarebbe realizzato nel passaggio dal Monologion al Proslogion dove questi non soltanto avrebbe adeguatamente distinto, come invece non avrebbe fatto nella prima opera, il problema dell’essenza possibile di Dio da quello della sua esistenza, ma avrebbe dato risposta alla questione dell’esistenza di Dio sulla base dell’essenza di Dio presupposta esclusivamente per fede. Questo progresso sarebbe dunque da concepire, propriamente, come una purificazione della razionalità teologica da qualsiasi elemento di tipo filosofico. L’argomento anselmiano, infatti, non afferma nulla sulla natura di Dio, ma semplicemente mostra che, riconosciuta l’essenza di Dio per fede, non si può pensare la sua esistenza in intellectu senza anche pensarla in re.
Barth ha fatto sua questa impostazione ritenendola normativa per l’intera conoscenza teologica. Quest’ultima, infatti, non muove da una domanda arbitraria dell’uomo sulla rivelazione, ma dalla rivelazione stessa che assume la forma di una risposta alla quale può e deve seguire una corrispondente domanda. Nei Prolegomeni alla Kirchliche Dogmatik[22], Barth ha chiarito bene questo principio affermando, proprio con riferimento ad Anselmo, che la corrispondenza dell’ordine conoscitivo a quello ontico non può che istituirsi sulla base del riconoscimento dell’anteriorità di quest’ultimo e di conseguenza l’atto del comprendere (Verstehen) dovrà essere inteso propriamente come un seguire (Nachfolgen) l’oggetto della comprensione. Ne consegue che se poniamo il problema della possibilità dell’incarnazione di Dio dobbiamo porlo a partire dalla realtà stessa dell’incarnazione in Cristo e dalla sua realtà così come essa è, dunque dalla sua necessità. Infatti, nota Barth, “ciò che compete a Dio noi non possiamo dirlo in base ad una precomprensione (Vorverständnis), ma in base ad una postcomprensione (Nachverständnis) con la quale non pronunciamo alcun giudizio su ciò che per Dio era necessario, ma solo un riconoscimento (Anerkennung) di ciò che egli ha evidentemente ritenuto necessario”[23]. La conoscenza teologica vive dunque del reciproco rimando tra risposta e domanda, tra realtà e possibilità, per quanto si tratti di un rimando che non assume la forma della correlazione (come sarà per esempio in P. Tillich), dacché il primo termine detiene un’assoluta preminenza, mentre il secondo non gode di alcuna autonomia, bensì testimonia semplicemente che la realtà che si svela nella rivelazione, la risposta che ci viene incontro attraverso di essa, non ci è semplicemente estranea, ma ci riguarda profondamente.
4. Il senso conoscitivo-esperienziale della fede
Dopo questo breve accenno alla funzione metodologica che la rivelazione assume per quanto la riguarda la conoscenza teologica, ritorniamo al problema più generale del rapporto tra rivelazione e conoscenza. Se la rivelazione è, come Barth pensa, un atto esclusivo di Dio, la conoscenza di essa non potrà che essere concepita come l’atto corrispondente della sua approvazione. Nel § 6 della Kirchliche Dogmatik[24], Barth offre una definizione del significato di “conoscenza” proprio in questi termini: “Noi comprendiamo come conoscenza (Erkenntnis) di un oggetto da parte dell’uomo la conferma del sapere che egli ha di quest’oggetto riguardo al suo esserci, ovvero alla sua esistenza, e al suo esser-così (Sosein), ovvero alla sua essenza. Per ‘conferma del sapere’ intendiamo il fatto che la realtà dell’oggetto in questione (…) diventa vero anche per l’uomo. Il sapere di questo oggetto viene così a determinare la sua esistenza in un modo che da casuale diviene necessario e da esterno interno. Colui che conosce ha a che fare con l’oggetto conosciuto, non esiste più senza di esso, ma con esso. In quanto lo pensa, egli deve pensarlo con tutta la fiducia possibile come una realtà vera, vera nel suo esserci e nel suo esser-così”[25].
Come si vede, in questa definizione la conoscenza indica l’adesione che il soggetto dà all’esistenza dell’oggetto e al suo essere per come esso si manifesta. La conoscenza della rivelazione di Dio non fa eccezione a questa regola generale, anzi ne costituisce il caso esemplare. Sollevare la questione di come gli uomini possano conoscere la parola di Dio non può quindi significare né mettere in dubbio la realtà di questa conoscenza, né astrarre da essa: significa semplicemente che la rivelazione, dandosi a conoscere all’uomo, diventa per questi un evento che lo riguarda nel suo essere. Per questo motivo la conoscenza della rivelazione è qualificabile, in modo più pertinente, come un’esperienza (Erfahrung). Con ciò Barth si riferisce indubbiamente ad una nozione di esperienza che J. Mouroux definirebbe “strutturata”[26], ovvero ad un’esperienza che coinvolge l’intero ambito delle facoltà razionali o sensoriali umane e che non presenta, in prima istanza, un significato antiintellettualistico. Ciò è provato dal fatto che non si tratta di un’esperienza meramente soggettiva e psicologicamente connotata, ma di un’esperienza originariamente correlata ad un oggetto, sebbene ad un oggetto peculiare che non è propriamente un oggetto, bensì un soggetto. Quello che Barth intende con ciò non è tuttavia un processo di adeguamento dell’intelletto alla cosa, ma appunto una conferma nell’esistenza individuale di una realtà che si è automanifestata. Non ci troviamo di fronte, pertanto, ad un atto conoscitivo autonomo dell’uomo, ma piuttosto ad una presa d’atto, ad un assenso in cui ritroviamo l’essenza stessa della fede. La fede, infatti, è quell’esperienza in cui l’uomo, venendo a conoscenza della rivelazione, rimane sconosciuto a se stesso, ovvero acquista una certezza che non si tramuta in certezza di sé. Come Barth afferma, la fede è un’esperienza in quanto è un “fare inaccessibile a tutta la pura teoria”[27], in cui l’uomo sperimenta la propria corrispondenza alla parola di Dio e si scopre soggetto a partire dall’oggetto conosciuto. Così, nella sostanza, la fede è per Barth un’azione di Dio stesso nel credente, un’opera dello Spirito che testimonia “la rivelazione come rivelazione avvenuta per noi”[28]. In questo senso, la fede è radicalmente scissa dal sapere, se per sapere s’intende una conoscenza autonoma che l’uomo sarebbe in grado di affiancare al sapere della rivelazione che ricaviamo dal suo riconoscimento/approvazione suscitato in noi dallo Spirito. Nemmeno il momento in cui la realtà oggettiva della rivelazione diviene realtà soggettiva può essere contemplato e reso oggetto di analisi, cosicché nemmeno la coscienza credente, nella forma di un’analysis fidei, può divenire fattore di conoscenza. Poiché la realtà soggettiva della rivelazione non è altro che una ripetizione in noi della sua realtà oggettiva, essa non può, infatti, secondo Barth, diventare dal punto di vista concettuale un tema a se stante.
5. Rivelazione e conoscenza: alcune considerazioni
Tracciato brevemente questo quadro, in che senso è dunque possibile parlare di un rapporto tra rivelazione e conoscenza in Barth? Cerchiamo di rispondere a questa domanda con alcune ulteriori considerazioni e con una breve riflessione conclusiva di carattere critico. Abbiamo visto come per Barth la rivelazione costituisca il principio di ogni conoscenza teologica. La rivelazione, infatti, è “l’autosvelamento di Dio in cui il Dio che per sua essenza non si svela all’uomo si rende partecipe a questi”[29]. Questo significa che, pur essendo Dio incomunicabile in se stesso, nella sua rivelazione egli si è reso presente all’uomo in modo oggettivo, cioè disponibile per essere intuito e compreso. Nella sezione della Kirchliche Dogmatik dedicata al problema della conoscenza di Dio[30], Barth distingue, in effetti, fra un’oggettività primaria, in riferimento all’essere di Dio in sé, e un’oggettività secondaria, in riferimento all’essere di Dio nella sua rivelazione. L’autodimostrazione (Selbstbeweis) di Dio che ha luogo nella sua oggettività secondaria corrisponde pienamente alla sua oggettività primaria, cosicché si deve affermare che nella prima Dio ha rivelato la totalità del proprio essere[31]. Tuttavia, poiché lo ha fatto attraverso un medium mondano, la conoscenza che di essa l’uomo può avere è soltanto indiretta e questo che fa sì che l’essere di Dio rimanga per l’uomo un mistero. Ebbene, è proprio questa coesistenza paradossale tra rivelazione e mistero a costituire secondo Barth il tratto essenziale e insuperabile della conoscenza umana di Dio. Da una parte, infatti, nella rivelazione di Dio la correlazione fra svelamento e disvelamento è definitivamente risolta a favore del primo termine e ciò comporta che in virtù della rivelazione l’uomo diventi capace di comprendere ed esprimere l’essere di Dio. Dall’altra, è necessario affermare che il mistero accompagna, determina e limita la conoscenza di Dio che conseguiamo grazie alla rivelazione. Questo significa, più precisamente, che il nascondimento di Dio appartiene alla sua rivelazione non soltanto come terminus a quo, ma anche come terminus ad quem, dal momento che ogni autentica conoscenza di Dio ha inizio con il riconoscimento della sua incomprensibilità e termina con essa. In questo modo Barth viene ad ammettere che la nostra conoscenza di Dio è una conoscenza per analogia, intendendo con ciò che, in virtù della rivelazione, risultiamo in grado di corrispondere realmente anche se parzialmente per mezzo dei nostri concetti e delle nostre parole all’essere di Dio. Realmente, perché si tratta di concetti e di parole che non esprimono l’essere di Dio soltanto in modo figurato o simbolico, rimanendo esterni ad esso alla maniera di un “come se”; parzialmente, perché l’inadeguatezza naturale del nostro intelletto e del nostro linguaggio in relazione all’essere di Dio non viene mai trasformata con la rivelazione in perfetta adeguazione.
Quali che siano le molte questioni critiche che questa prospettiva di Barth solleva[32], è certo che in essa il principio per il quale Dio non diventa conoscibile se egli stesso non si dà a conoscere è assunto in senso radicale. La rivelazione, intesa come la singolare, concreta automanifestazione di Dio nella storia, è criterio a se stessa e non sopporta di essere a sua volta dimostrata; piuttosto è essa stessa prova[33]. La conseguenza più vistosa di questa concezione è, com’è noto, il rifiuto della teologia naturale e dell’analogia entis. Le motivazioni di questo rifiuto sono certamente complesse: in estrema sintesi si può dire che Barth considera la teologia naturale come una fonte alternativa di conoscenza rispetto a quella rivelata, tale da entrare in contraddizione con quest’ultima. La teologia naturale viene costruita sulla base della possibilità naturale dell’uomo di concepire qualcosa come Dio, una possibilità che tuttavia, secondo Barth, a motivo del peccato originale, è oramai irrimediabilmente corrotta e non può dare luogo che ad una conoscenza illusoria di Dio. La fortuna della teologia naturale nella storia della teologia occidentale è dovuta a quello che egli chiama un utilizzo “pedagogico”, ovvero al fatto che tradizionalmente la teologia naturale ha costituito un preambulum della teologia rivelata e dunque una propedeutica razionale alla conoscenza per fede. Questa funzione, tuttavia, è, per così dire, distorta dal punto di vista comunicativo, giacché in essa secondo Barth il teologo mette tra parentesi il principio normativo della rivelazione per utilizzare un altro principio che serve soltanto a creare un punto d’aggancio provvisorio con l’interlocutore che poi deve essere necessariamente superato in vista dell’autentico obiettivo rappresentato, appunto, dalla conoscenza del Dio rivelatosi in Gesù Cristo. Il motivo fondamentale del rifiuto della teologia naturale è dunque dato dal fatto che Barth intende quest’ultima essenzialmente come un atto in cui l’uomo trascende se stesso in direzione di un assoluto che egli arbitrariamente chiama Dio e di cui altrettanto arbitrariamente dichiara l’identità con il Dio di Gesù Cristo. Nella realtà, il Dio della teologia naturale non è altro secondo Barth che l’immagine ingrandita dell’uomo in cui non ha luogo nessun incontro reale con l’assolutamente Altro, ma semplicemente la reduplicazione di se stesso. La dipendenza di questa tesi dalla critica della religione feuerbachiana è stata tematizzata dallo stesso Barth e dimostra come egli intenda la teologia naturale non più nell’accezione che le veniva attribuiva nell’antichità, dai presocratici fino allo stoicismo, e cioè conoscenza della vera natura di Dio, ma piuttosto in quella attribuitale dai moderni, e cioè conoscenza di Dio secondo la natura dell’uomo. In altri termini, il concetto di teologia naturale che Barth rifiuta è fortemente influenzato da quello di religio naturalis presente nel deismo illuministico e illecitamente traspostosi in ambito teologico.
Questa comprensione o questa incomprensione della teologia naturale possiede però anche una motivazione interna alla stessa teologia barthiana: intendendo la rivelazione come singolare automanifestazione della soggettività divina nella storia e assumendola come principio esclusivo della conoscenza di Dio, egli è portato a concepire la creazione come il “fondamento esterno del patto” tra Dio e uomo, e cioè, per così dire, come la cornice in cui ha luogo la rivelazione di Dio e la storia della salvezza. Le realtà creaturali, così, non brillano di luce propria ma soltanto di luce riflessa come accade, per usare un’immagine che Barth stesso usa, nel caso dei catarifrangenti posti ai lati della strada. Con ciò Barth non nega la possibilità di una rivelazione generale[34], poiché negarla significherebbe limitare arbitrariamente la potenza di Dio e nemmeno nega che, anche dal punto di vista biblico, sia legittimo parlare di una rivelazione di Dio nella natura, tuttavia considera la prima una semplice possibilità con la quale la teologia non può fare i conti e la seconda come una sorta di eco della voce o di riflesso della luce che proviene dalla rivelazione storica in Gesù Cristo, avente l’esclusiva funzione di confermare l’accadimento di quest’ultima[35].
Ciò detto, ci sembra di utile fare due osservazioni conclusive sul contributo di Barth al tema del rapporto fra rivelazione e conoscenza: in primo luogo, è indubbio che egli ha liberato il concetto di rivelazione da una pregiudiziale di tipo biblicistico o intellettualistico. La rivelazione non rimanda in prima istanza all’ispirazione scritturistica né ad una conoscenza dottrinale necessaria alla salvezza, ma all’automanifestazione dell’essere di Dio in Gesù Cristo e della sua grazia salvifica. Questo elemento ha trovato un’indubbia valorizzazione nella teologia cattolica del Novecento e anche una ricezione magisteriale con il Vaticano II[36]. In secondo luogo, la comprensione del concetto di rivelazione come evento storico singolare e concreto, se da una parte giustifica molte delle espressioni polemiche che Barth avanza a proposito dell’utilizzo in chiave razionalistica della teologia naturale, dall’altra è responsabile dell’inavvertenza del problema critico che quest’ultima pone. E cioè del fatto che se è vero che la rivelazione storica di Dio in Gesù Cristo non ammette condizioni di possibilità, non altrettanto si deve dire per la conoscenza che l’uomo ha di essa. In questo caso la condizione di possibilità, come ha osservato H. Bouillard[37], sta nel fatto che l’uomo accede alla rivelazione storica di Dio possedendo già una nozione di Dio o del divino senza la quale egli non potrebbe nemmeno stabilire di essere di fronte alla rivelazione del vero Dio. È proprio la tematizzazione di questa nozione preliminare nell’ambito dell’antropologia filosofica e della metafisica a permettere di considerare il fenomeno della fede nella sua relazione non estrinseca alla conoscenza e inoltre di arginare un utilizzo criticamente incontrollato del concetto di rivelazione e dell’impressione ad esso connessa di autoritarismo. Sotto questo punto di vista, il rimprovero di “positivismo della rivelazione” che D. Bonhoeffer ha rivolto a Barth, seppur ingiusto nella sostanza, ha indubbiamente posto l’accento su un problema reale della teologia barthiana.
[1] Il rimando classico è a P. Eicher, Offenbarung. Prinzip einer neuzeitlicher Theologie, Kösel, München 1977. Per uno sguardo storico d’insieme cfr. H. Waldenfels, La comprensione della rivelazione nel XX secolo, in M. Seybold-H. Wandenfels, Handbuch der Dogmengeschichte, Herder, Freiburg 1971-1977; tr. it. La rivelazione, Augustinus, Palermo 1992, pp. 405 ss. [2] Cfr., in questo senso e con riferimento polemico al rilievo del concetto di rivelazione nella teologia di K. Barth, P. Althaus, Die Inflation des Begriffs ‘Offenbarung’ in der gegenwärtigen Theologie, in “Zeitschrift für systematische Theologie”, 18 (1941), pp. 134-149. [3] Per quanto riguarda la teologia evangelica è stato soprattutto E. Brunner a tematizzare questa necessità, cfr. Offenbarung und Vernunft. Die Lehre von der christlichen Glaubenserkenntnis, Zwingli-Verlag, Zürich 1961, particolarmente pp. 14 ss. [4] Per un riferimento puntuale alla bibliografia critica su questo punto ci permettiamo di rimandare a A. Aguti, La questione dell’ermeneutica in Karl Barth, Dehoniane, Bologna 2001, pp. 57 ss. [5]K. Barth-E. Thurneysen, Briefwechsel. Band II (1921-1930), Theologischer Verlag, Zürich 1974, p. 254. [6] K. Barth, Christliche Dogmatik im Entwurf (1927), Theologischer Verlag, Zürich 1982, p. 65. [7] Ivi, p. 67. [8] Ivi, p. 68. [9] Ivi, p. 107. [10] Ivi, pp. 137-138. [11] Fides quaerens intellectum. Anselms Beweis der Existenz Gottes, Theologischer Verlag, Zürich 19862; tr. it. Anselmo d’Aosta. Fides quaerens intellectum, Morcelliana, Brescia 2001. [12] Ivi, p. 67. [13] Ivi, p. 69. [14] Ibidem [15] Ivi, p. 74. [16] Ivi, p. 82. [17] Ibidem [18] Ivi, p. 75. [19] Ivi, p. 149. [20] Ivi, p. 132. [21] Ivi, p. 133. [22] KD I/2, p. 3 ss. [23] Ivi, p. 41. [24] Cfr. KD I/1, pp. 194 e ss. [25] Ivi, p. 195. [26] J. Mouroux, L’expèrience chrétienne. Introduction a une théologie, Aubier, Paris 1952, p. 26. [27] KD I/2, p. 252. [28] Ivi, p. 258. [29] KD I/1, p. 332 [30] Comprendente i §§ 25-27, contenuti in KD II/1, pp. 1-287. [31] Cfr., per un adeguato commento di questa concezione barthiana, E. Jüngel., Gottes Sein ist im Werden, Mohr, Tübingen 1976 (ed. orig. del 1964); tr. it., L’essere di Dio è nel divenire, Marietti, Genova 1986, pp. 113 ss. [32] Per una discussione critica del concetto di rivelazione in Barth cfr. W. Pannenberg, Systematische Theologie, Band I, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1988; tr. it. Teologia sistematica, vol. I, Queriniana, Brescia 1990, pp. 268 ss. La critica di Pannenberg s’indirizza soprattutto verso la riduzione della complessità semantica del termine “rivelazione” a “parola di Dio” e verso la comprensione esclusiva di quest’ultima come automanifestazione o autocomunicazione di Dio. In particolare, quest’ultimo aspetto non avrebbe secondo Pannenberg “coperture” di tipo esegetico, ma sarebbe il frutto di una precomprensione filosofica, quella idealistico-hegeliana, che Barth avrebbe assunto attraverso la mediazione di teologi come K. Ph. Marheineke. [33] “Compresa in senso cristiano la rivelazione è appunto anche la prova, cioè la prova di Dio portata da lui stesso” (K. Barth, Das christliche Verständnis der Offenbarung. Eine Vorlesung, Chr. Kaiser Verlag, München 1948, p. 7). [34] Già nella Christliche Dogmatik, cit., Barth evocava questa possibilità citando l’espressione di S. Tommaso: “Omne verum, a quocunque dicatur, est a Spiritu sancto” (p. 178). [35] Cfr. KD II/1, pp. 112 ss.; KD IV/3, pp. 158 ss. [36] Per un’ampia trattazione di questo aspetto cfr. W. Kern-H. J. Pottmeyer-Max Seckler (edd.), Handbuch der Fundamentaltheologie. 2. Traktat Offenbarung, Herder, Freibrurg i. B. 1985-1988; tr. it. Corso di teologia fondamentale. Trattato sulla rivelazione, Queriniana, Brescia 1990. [37] H. Bouillard, Connaissance de Dieu. Foi chrétienne et théologie naturelle, Aubier, Paris 1967, pp. 77 ss.