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Riconciliarsi con l’Altro oggi in Europa

1. L’esodo come attesa della Parola: il bisogno della riconci­liazione
a) “Cor inquietum”: la struttura originaria dell’attesa
b) “In finibus Europae”: il bisogno epocale della riconciliazione

2. L’avvento della Parola: il dono della riconcilia­zione
a) “Re-velatio Dei”: la Parola procedente dal Silenzio
b) “Exitus – reditus”: l’esodo verso il Padre

3. Riconciliarsi con l’Altro oggi in Europa
a) Dove l’esodo incontra l’avvento: la fede
b) I cristiani d’Europa al servizio della riconciliazione

Fra l’esodo della condizione umana, in permanente ricerca e attesa, e l’avvento del Dio vivo, che con la Sua Parola e il Suo Silenzio viene ad abitare il tempo degli uomini, la riconciliazione si pone come frutto del loro incontro, dono di Dio e sorgente di vita nuova: essa sta sulla frontiera, conti­nua­mente rinviando al­l’una e all’altra parte, grazia d’alleanza fra la fragile terra dove poggiano i nostri piedi e l’abisso insondabile del Mistero divino. Due movi­menti l’attraversa­no, fra loro totalmente asimmetri­ci: quello del pellegrino, cercatore del senso, assetato di una patria, su cui radicare il cammino e per cui combattere la propria lotta con la morte; e quello, senza il quale neanche l’altro esisterebbe, dell’Origine, presupposto e fondamento di tutto ciò che esiste, che viene a noi dal Suo insondabile Silen­zio. Il ponte che attraversa questa asim­metria è Gesù Cristo, colui che è in persona l’alleanza fra esodo e avvento: è per questo che la riconciliazione, tanto del cuore umano inquieto, quanto delle società complesse di questa Europa di fine millennio, è la grande promessa e la grande sfida della fede in Lui[1].

1. L’esodo come attesa della Parola: il bisogno della riconci­liazione

a) “Cor inquietum”: la struttura originaria dell’attesa

Basta uno sguardo all’esistenza uma­na in questo mondo per constatare come e quanto la vita degli uomini sia determinata dal loro inesorabile essere “gettati” verso la morte: «La morte sovrasta l’Esserci. La morte non è affatto una semplice presen­za non ancora attuatasi, non è un mancare ultimo ridotto al minimo, ma è, prima di tutto, un’imminenza che sovrasta»[2]. Da questa situazione di radicale precarietà nasce l’angoscia: «L’es­ser-gettato nella morte si rivela all’Es­serci nel modo più originale e pene­trante nella situazione emotiva dell’an­goscia»[3]. E dall’angoscia, come permanente e incombente esperienza del nulla segnalato dall’inter­ruzione, sorge il domandare originario che ci rende pensanti: se non esistessero la sofferenza e la morte, non si accenderebbe la vita del pensiero, non si schiude­rebbe il mondo alla coscienza. È il patire che suscita in noi la doman­da, accendendo la sete di ricerca, lasciando aperto il bisogno di senso: il pensiero nasce dal dolore.
La sola via che sembra aprirsi al­l’uomo per uscire dalla situazione dell’angoscia è quella di capovol­gere la direzione del cammino: resistendo al destino che sembra gettarlo verso il nulla, l’uomo è chiamato a “pro-gettarsi”, ritrovando in se stesso la sorgente di una vita più forte dell’apparente trionfo della morte. È così che dalla morte si nasce pellegrini verso la vita: vivere non è sol­tanto imparare a morire, ma anche lottare per dare senso alla vita. Dove l’uomo non si arrende di fronte al destino della necessità e si fa interrogante, lì si rivela la dignità della vita, il senso e la bellezza di esistere. Lì l’uomo si riconosce non come un condannato alla terra, ma in essa e per essa come un «mendi­cante del cielo» (J. Mari­tain): «Hai fatto il nostro cuore per Te ed inquieto è il cuore nostro finché non riposi in Te»[4].
L’uomo appare dunque come un cercatore di senso, che, lottando contro l’appa­ren­te trionfo della morte, è provocato, interrogato ed attratto dall’ultimo orizzonte, dove trionfi la vita. In quanto questo orizzonte è contesta­zione radicale della vittoria della morte, esso si offre come il mistero assoluto dell’esistenza, il grembo che avvolge la vita e la custodisce oltre il silen­zio dell’interruzione. Attratto da questo ultimo orizzonte, che lo rende pensan­te, l’essere umano sperimenta se stesso come “auto-trascendenza” (Karl Rahner), esodo verso il Mistero che avvolge ogni cosa, deside­rio e ricerca dell’inaffer­rabile e dell’indefinibile, non riducibile a una cattura indiscre­ta. Di questo orizzonte non si può disporre: «L’ampiezza infinita che tutto abbraccia e tutto può abbrac­ciare non si lascia a sua volta abbracciare…»[5]. All’o­riz­zonte misterioso della trascendenza ci si può solo disporre in attesa, in ascolto: «L’orizzonte della trascendenza si dà a noi nel modo di uno che si rifiuta, nel modo del silen­zio, della lonta­nanza, di uno che si mantiene costantemente in uno stato di non espressi­vi­tà, cosicché qualsiasi discorso da parte sua, per essere per­cepibile, ha sempre bisogno che ten­diamo l’orecchio a un silenzio»[6].
La struttura originaria dell’esistenza umana è per­tanto il suo movimento esodale, la sua autotrascendenza: «L’uomo è spiritua­le, vive cioè la sua vita in una continua tensione verso l’Asso­luto, in una apertura a Dio»[7]. Questo movimento di autotrascen­denza è originario, ma non si compie nella forma di una pura e semplice necessità, che escluda la pos­sibilità del rifiuto e la dignità dell’assenso: la mi­steriosità del reale è anzi precisamente la condi­zione che rende possibile l’esercizio della libertà da parte dello spirito finito. Il libero na­scondersi e rivelarsi di Dio è il fonda­mento ontologico della condizione di libertà della creatura. Senza l’assenso gratuito dell’amore né Dio si aprirebbe all’uomo, né l’uo­mo si aprireb­be a Dio. L’auto­trascendenza non si realizza al di fuori di una scelta, di un’autodeterminazione morale: l’esodo della condizio­ne umana è cammino di libertà. Perciò si può dire che «l’uomo è in ascolto della parola o del silenzio di Dio nella mi­sura in cui si apre, amando liberamen­te, a questo messaggio della parola o del silenzio del Dio della rivelazio­ne»[8].
La decisione della libertà, di cui l’autotrascendenza ha bisogno per rea­lizzarsi, si compie a sua volta non in astratto, ma in rapporto a un evento concreto, con cui si incontri l’apertura del cuore. È pertanto necessario che questo luogo dell’incontro con la trascendenza del Mistero venga a pre­cisarsi e che l’esistenza come esodo si disponga all’ascolto di un possibile avvento dell’Altro nell’orizzonte del tempo: «L’uomo è l’ente che nella sua storia deve tendere l’orecchio a un’e­ventuale rivelazione storica di Dio attraverso la parola umana»[9]. L’atto di una possibile autocomunicazio­ne di Dio non può che essere storicamente determinato, perché l’uomo è spirito come essere storico e comunica l’og­getto della sua conoscenza mediandolo nella parola, pur senza alcuna pretesa di esaurirlo: «Finché quindi l’uomo non partecipa della visione immediata di Dio, è sempre ed essen­zialmente _ in forza della costituzione fondamen­tale della sua esistenza _ un uditore della parola di Dio, colui che deve prevedere una possibile rivelazione di Dio, che non consiste nella manifesta­zione diretta del contenuto dell’oggetto rivelato nella sua propria essenza, ma nella sua comunicazione mediante segni rappresen­tativi, che indichino ciò che deve essere rivelato, pur essendo da essi diverso»[10]. L’“uditore della Parola” è il pellegrino del Mistero, la domanda aperta, tesa verso il possibile avvento della Parola che rompa il silenzio della morte e riveli l’origine, il grembo e il destino della vita…

b) “In finibus Europae”: il bisogno epocale della riconciliazione

Se l’uomo è strutturalmente un pellegrino verso la vita, aliena­zione è il sentirsi arrivato, non più esule in questo mondo ma possessore, domina­tore di un oggi che vorrebbe fermare la permanente tra­scenden­za del cammino: «L’esilio vero d’Israele in Egitto fu che gli Ebrei avevano imparato a sopportarlo»[11]. L’esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non si ha più nel cuore la nostalgia della patria. L’illu­sione di sentirsi arrivati, il preten­dersi compiuti nella propria vicenda, il cat­turare Dio nella misura dell’orizzonte penultimo, è la malattia mortale: si è morti quando non si vive più l’inquie­tudine e la passione del doman­dare, il desiderio del cercare ancora. E questo può accadere anche all’interno dell’espe­rienza religiosa, compresa quella cri­stiana: perciò anch’essa sta sotto il permanente giudizio della Croce. L’uomo che si ferma, sentendosi padrone e sazio della verità, per il quale perciò essa non è più il Mistero ultimo da cui lasciarsi sempre più profon­damente possedere, è l’uomo che ha oscurato in se stesso non solo l’apertura a Dio, ma anche la propria dignità di persona umana.
È precisamente la mancanza di quest’ansia di ricerca che sembra costituire la debolezza della coscienza europea nell’epoca cosiddetta “post-moderna”: se la ragione adulta e illuminata della modernità pretendeva di spiegare tutto, la post-modernità, inaugurata dalla crisi dei modelli ideologici conseguente alla violenza da essi stessi prodotta, si offre anzitutto come tempo che sta al di là della totalità luminosa dell’ideologia, tempo post-ideologico o del lungo addio, tempo di rinuncia e di declino rispetto alle presunzioni totalizzanti dell’idea. Se per la ragione adulta tutto aveva senso, per il pensiero debole della condizione post-moderna nulla sembra avere più senso. È tempo di naufragio e di caduta. È tempo di povertà, che – come osserva Heidegger – è «notte del mondo» non a causa della mancanza di Dio, ma a motivo del fatto che gli uomini non soffrono più di questa mancanza: la povertà, che ci rende malati, è l’indifferenza, il non soffrire più dell’infinito dolore dell’“assenza di patria” (“Heimatlosigkeit”), la perdita del gusto a cercare le ragioni ultime del vivere e del morire umano[12].
Si profila così l’estremo volto della crisi epocale del secolo che volge alla fine: il volto della décadence. Così la descrive Bonhoeffer: «Non essendovi nulla di durevole, vien meno il fondamento della vita storica, cioè la fiducia, in tutte le sue forme. E poiché non si ha fiducia nella verità, la si sostituisce con i sofismi della propaganda. Mancando la fiducia nella giustizia, si dichiara giusto ciò che conviene… Tale è la situazione del nostro tempo, che è un tempo di vera e propria decadenza»[13]. La decadenza non è l’abbandono dei valori, ma la rinuncia a cercare qualcosa per cui valga la pena di vivere. La décadence svuota di forza il valore, perché non ha interesse a misurarsi con esso. Essa priva l’uomo della passione per la verità, gli toglie il gusto di combattere per una ragione più alta, lo spoglia di quelle motivazioni forti che l’ideologia ancora sembrava offrirgli. La decadenza vorrebbe persuadere ad un ottimismo ingenuo, universale, che non ha bisogno di tenere ferma la negatività dell’avversario, perché tende solo a piegarlo al proprio calcolo e al proprio interesse, senza curarsi della verità.
Ciò di cui si è più malati oggi è la mancanza di passione per la verità: è questo il volto tragico dell’«assenza di patria». Nel clima della decadenza tutto cospira a portare gli uomini a non pensare più, a fuggire la fatica e la passione del vero, per abbandonarsi all’immediatamente fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata. È il trionfo della maschera a scapito della verità: è il nichilismo della rinuncia ad amare, dove gli uomini sfuggono al dolore infinito dell’evidenza del nulla fabbricandosi maschere, dietro cui celare la tragicità del vuoto. Nel clima della decadenza, perfino l’amore diventa maschera e i valori si riducono a coperture da sbandierare per nascondere l’assenza di significato: l’uomo si risolve in una «passione inutile»[14].
Questa parabola della modernità, che dall’ebbrezza ideologica giunge alla caduta del senso e al tempo della décadence, è l’orizzonte del nostro attuale agire e pensare da cristiani nell’Europa che cambia: la “cultura forte”, espressione dell’ideologia, si è frantumata nei tanti rivoli delle “culture deboli”, in quella “folla delle solitudini“, in cui è soprattutto rilevante la mancanza di orizzonti comuni, quella penuria di speranze “in grande”, che piega ciascuno nel corto orizzonte del suo “particulare”. Dove muoiono le grandi speranze, trionfa il calcolo di bassa lega: alle ragioni del vivere e del vivere insieme, si sostituisce la rivendicazione dell’immediatamente utile e conveniente, la protesta fondata nell’interesse dall’ottica breve, spesso ottusa e velleitaria. La fine delle ideologie e la frantumazione che ne è conseguita appare così veramente come la pallida avanguardia dell’avvento dell’idolo, che è il relativismo totale di chi non ha più alcuna fiducia nella forza della verità. Siamo malati di assenza, poveri di speranza e di grandi ragioni: dove manca la passione per la verità, tutto è possibile, e perfino il solidarismo può coniugarsi a calcoli volgari, declinandosi in progettazioni di piccolo cabotaggio…

2. L’avvento della Parola: il dono della riconcilia­zione

a) “Re-velatio Dei”: la Parola procedente dal Silenzio

Per la fede cristiana è il grido dell’ora nona a trafiggere la chiusura totalizzante dell’ideologia, lasciando irrompere nel penultimo l’imminenza sovrana dell’ultimo. Cristo crocefisso è il luogo in cui l’Altro è venuto a dirsi (e a tacersi) per noi. L’incontro con la Parola della Croce libera e cambia il cuore e la vita: Cristo davanti a Pilato ci ricorda che la verità non è qualcosa che si esibisce come un sistema logico o come un castello di parole ben costruite. La verità è l’Innocente, che ci raggiunge con la discrezione della sua presenza d’amore: la Verità non è qualcosa che si possiede, ma Qualcuno che ci possiede nella comunione del Suo popolo fedele. Per riconoscere il volto dell’Altro, che solo può vivificare oggi la complessità delle culture e offrire il dono della riconciliazione, diventa allora necessario chiedersi quali tratti del Cristo sia necessario che i cristiani riscoprano e testimonino per parlare credibilmente di Lui a questo tempo di penuria della passione per la Verità, dopo la crisi della modernità e l’insorgente inquietudine postmoderna, di fronte all’abbandono del senso totalizzante ed all’emergere di nuove nostalgie del senso.
Il Dio della fede ebraico-cristiana è il Dio dell’avvento, l’Eterno che ha tempo per l’uomo. Venendo nella sto­ria, Egli dischiude il cammino, accende l’attesa, offre una promessa sempre più grande del compimento realizzato. Perciò il Suo avvento è “ri-velazio­ne”: uno svelarsi che vela, un venire che apre cammino, un ostendersi nel ritrarsi, che attira. A questa dialettica di apertura e di nascondimento rinvia lo stesso termine “re-velatio” (analogo al greco •B@6V8LR4H), in cui il pre­fisso “re_” (•B`) ha tanto il senso della ripetizione dell’i­dentico, quanto quello del passaggio alla condizione opposta: la rivelazione del Dio che viene toglie il velo che cela, ma è anche un più forte nascondere, è co­municazione di sé, che insepara­bil­mente si offre come un nuovamente “velare”. Perciò la tradizione ebraico-cristiana abbraccia accanto a una teo­logia della Parola, inseparabile da essa, una teologia del Silenzio: il dire di Dio non si compie mai senza un Suo più alto tacere…[15]
In questa luce, il Signore Gesù ci appare come la Parola uscita dal Silenzio, l’esodo di Dio da sé per amore nostro, il santuario vivente e santo, in cui l’alterità del Figlio rispetto al Padre ci apre alla Trinità di Dio. Nella tradizione teologica europea occidentale dell’epoca moderna, espressa in gran parte in tedesco, questo aspetto decisivo è stato oscurato a causa di uno slittamento semantico di grande portata: la re-velatio greco-latina è stata pensata sempre più come l’Offenbarung tedesca. Fra questi termini – impropriamente considerati equivalenti – c’è in realtà un’abissale differenza: la dialettica di apertura e di nascondimento, contenuta nei termini greco e latino, è persa in quello tedesco. Dove la revelatio è stata intesa come Offenbarung, e quindi come manifestazione totale, come disponibilità all’apertura senza riserve (da “offen” = “aperto”, e “bären” = portare in grembo e generare), lì si è aperta la via al trionfo dell’ideologia: in questo senso, Hegel a buon diritto può ritenersi il grande esegeta del cristianesimo, così come egli lo intendeva quale religione dell’Offenbarung, religione dell’aperto e non del segreto, del manifesto e non del chiuso. Ma è precisamente questa presunzione logocentrica, dove tutto è compreso, che ha generato la visione totalitaria del mondo, matrice di ogni possibile violenza sull’altro.
Il Dio di Gesù Cristo è tutt’altro che il Dio dell’Offenbarung, di una manifestazione totale ed indiscreta: è il Dio della re-velatio, che resiste ad essere volgarizzato in formule ideologiche pronte a spiegare ogni cosa. La riconciliazione compiuta dal Signore Gesù non è la “Versöhnung” idealistica, dove tutto è assunto e risolto in un compimento razionalmente accessibile, ma la pace raggiunta a caro prezzo, conquistata da Lui con il Suo sangue e offerta come dono da accogliere nell’umiltà e nell’oscurità della fede pervasa dalla carità e aperta alla speranza. Non è la riconciliazione del compimento, ma della promessa: un essere riconciliati “in spe”, nella continua vigilanza di chi si riconosce “già” salvato e tuttavia “non ancora” in patria. Alla re-velatio, allora, non si corrisponde con l’arroganza ideologica del possesso, ma con l’atteggiamento che il Nuovo Testamento definisce “obbedienza della fede” (cf. Rom 1,5). Anche qui l’etimo illumina e chiarisce: ob-audire in latino e ßB-“6@Z in greco stanno a dire l’ascoltare ciò che è sotto, dietro, nascosto. Alla revelatio si corrisponde aderendo alla parola, come discepoli dell’unico Verbo di Dio, uscito dal Silenzio. Ma la Parola è porta, che ci introduce negli abissi del divino Silenzio. Perciò l’incontro con Cristo nell’obbedienza della fede è il sì a trascendere la Parola verso gli abissi del Silenzio cui essa introduce e il no radicale ad ogni riduzione ideologica, logocentrica del cristianesimo. Se il cristianesimo è la religione della revelatio e dell’obbedienza della fede, esso non dovrà essere contrabbandato con formule totalizzanti, ideologiche, politiche, o perfino morali, né potrà essere svenduto come il supporto di una delle forze in gioco nella storia, qualunque sia il collateralismo che si voglia proporre. La fede nella rivelazione è nutrimento di una permanente vigilanza critica.
Accoglie allora veramente la Parola pronunciata nella carne solo chi ascolta il Silenzio, da cui essa proviene ed a cui essa dischiude. L’au­tentico “ascolto” del Verbo è udire il Silenzio al di là della Parola, il Padre di cui il Figlio è rivelazione nel miste­ro della sua incondizionata obbedienza: «Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (Gv 13,20). «La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato» (Gv 14,24). La Parola della rivelazione richiede cioè di essere trascesa, non nel senso che possa essere eliminata o messa in parentesi, perché questo precluderebbe ogni accesso alle pro­fon­dità divine, ma nel senso che essa è verità e vita proprio in quanto è via (cf. Gv 14,6), soglia che schiude sul Mistero eterno, porta per la quale è necessario passare per entrare nell’ovile delle pecore (cf. Gv 10,7). Si accoglie perciò veramente la parola soltanto quando la si “supera”, le si obbedisce “trasgredendola”, ascoltando cioè ciò che sta oltre e dietro e più in profondo rispetto ad essa: alla dialettica di apertura e di nascondimento, segnalata nella struttura della “re-velatio”, viene così a corrispondere il movimento di tra­scendenza proprio dell’obbedienza della fede, che non si ferma all’imme­diatezza del Verbo, ma la supera an­dando verso l’al di là del detto[16].
Di Cristo rivelatore del Padre e del dono della riconciliazione offerto in Lui si dovrà allora parlare tacendo e tacere parlando, secondo uno stile di annuncio convinto e fedele, fatto di discrezione, di presenza non chiassosa, politicamente non invadente, e tuttavia evocatrice, irradiante nella sua discrezione, tale da suscitare l’amore più grande, senza violentare la realtà o il cuore dell’uomo. In un’epoca di rigetto delle certezze forti dell’ideologia, qual è la nostra, si comprende come quest’annuncio debole, forte della “debolezza di Dio”, possa attrarre ed inquietare chi accetta di farsi pensante e di stare in ricerca ben più che proposte di sicurezze a buon mercato. Per lo stesso motivo, però, chi fugge la fatica di volersi umano in un continuo esodo da sé, fuggirà anche lo scandalo della Croce, e si rifugerà in quelle riconciliazioni a basso costo, che immediatamente soddisfano, mascherando il vuoto senza riempirlo…

b) “Exitus – reditus”: l’esodo verso il Padre

Gesù di Nazaret ci offre il dono della riconciliazione col Padre attraverso un ulteriore duplice esodo: l’esodo da sé fino all’abbandono della Croce, e l’esodo verso il Padre nella potenza della resurrezione. Accettando di esistere per il Padre e per gli uomini, Gesù è libero da sé in maniera incondizionata. Questa stessa libertà Egli chiede ai suoi discepoli per entrare nel dono della riconciliazione: la Chiesa della riconciliazione si profila perciò anzitutto come una comunità libera da interessi mondani, decisa a non servirsi degli uomini, ma a servirli per la causa di Dio e del Vangelo. Questa libertà può giungere fino all’esodo da sé senza ritorno dell’ora della Croce: così è stato per il Maestro, così potrà esser chiesto al discepolo. Al vertice del suo cammino di libertà Gesù si offre come l’Abbandonato della croce e la Sua comunità come l’“Ecclesia Crucis”. Questo aspetto è centrale nella fede cristiana: nel silenzio del Venerdì Santo la scelta del Profeta galileo tocca il suo culmine. «In humilitate et ignominia crucis revelatur Deus» (Lutero)! Quando dimenticassimo il volto del Crocifisso, dimenticheremmo il Vangelo del Suo amore. La Chiesa della riconciliazione è la comunità che vive della sequela dell’Abbandonato, pronta a lasciarsi riconoscere nel dono di sé senza ritorno, anche se in termini umani questo dovesse risultare improduttivo o alienante: così libera da sé da non cercare successi e guadagni di questo mondo, libera per il suo Dio, questa Chiesa deve tenersi sempre pronta a pagare il prezzo più alto per vivere l’obbedienza alla volontà del Signore.
È su questa via che la riconciliazione offerta in Cristo ci apre all’esodo verso il Padre, che dà alla vita e alla storia il loro senso pieno e schiude alla patria dell’amore: Cristo vive questo esodo in quanto è il Risorto, il Signore della vita. Proprio così Egli è il testimone dell’alterità e della sovranità di Dio rispetto a questo mondo, dell’Ultimo rispetto a ciò che è penultimo, rivelato come tale nel giudizio della Croce e Resurrezione del Povero. Il cristianesimo non è la religione del trionfo del negativo, ma resta, nonostante tutto e contro tutto, la religione della speranza: perciò i cristiani, anche in un mondo che ha perso il gusto a porsi la domanda del senso, devono continuare a vivere la passione del senso, avendo a cuore l’Eterno. Testimoniare l’orizzonte più grande, dischiuso dalla promessa liberante di Dio, vuol dire annunciare il Vangelo della riconciliazione all’inquietudine senza senso del nichilismo postmoderno. Il Risorto invia la Chiesa ad essere testimone del senso, anticipazione militante dell’avvenire promesso nella riconciliazione che già ora può essere accolta e vissuta.

3. Riconciliarsi con l’Altro oggi in Europa

a) Dove l’esodo incontra l’avvento: la fede

L’incontro di libertà pur nella permanente a­simmetria del rapporto fra l’uma­no andare e il divino venire, l’esperienza dell’allean­za dell’esodo e dell’avvento è la fede, vita nuova che sorge con l’accoglienza del dono della riconciliazione. Proprio per l’asimmetria da cui nasce, la fede non è pos­sesso e certezza, ma lotta, agonia. Come fu per Giacobbe al guado nella notte (cf. Gen 32,23-33), così per chi crede il Dio vivente è e resta l’assali­tore notturno, tutt’altro che il “Deus mortuus”, denunciato dalla ragione ideologica, o il “Deus otiosus”, esiliato dalla ragione strumen­ta­le. Il Dio della riconci­lia­zione è l’Altro, non riducibile alla misura umana: perciò è sempre «terribile cadere nelle mani del Dio vivente» (Eb 10,31)! Credere implica la continua lotta con una Alterità, che non può essere “risolta” né “fermata”: l’esodo non può contenere l’avvento, ma deve lasciarsi continuamente raggiungere e sovvertire da esso. Ecco perché il dubbio abiterà sempre la fede ed essa sarà combatti­mento, resistenza e resa: «Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato se­durre; mi hai fatto forza e hai preval­so… Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!” Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non pote­vo» (Ger 20,7. 9). La pace della fede, la gioia che il mondo non conosce, la bellezza che salverà il mondo, non è l’assenza di agonia e di passione, ma il vivere al tempo stesso in lotta con l’Altro e a Lui perdutamente arresi, conse­gnati allo Straniero, che invita: il Dio della fede è “fuoco divorante” (cf. Dt 4,24; Is 33,14; Eb 12,29); la riconciliazione che Egli offre non è comoda rassicurazione ideologica, ma caparra e anticipazione, da accogliere sempre di nuovo nell’impegno della speranza e della carità…
La fede tiene così insieme in maniera paradossale l’infinita distanza e l’inaudita prossimità, che la riconcilia­zione offerta in Cristo rende possibile fra gli uomini e Dio: «“Dio è in cielo e tu sulla terra”. Il rapporto di questo Dio a questo uomo, il rapporto di questo uomo a questo Dio è il tema della Bibbia e insieme la somma della filosofia. I filosofi chiamano questa crisi del conoscere umano “origine”. La Bibbia vede in questo punto cru­ciale Gesù Cristo»[17]. Nella fede l’Altro non è ricondotto al medesimo, ma mantenuto nella Sua alterità, e proprio così resta sorgente di vita nuova nella sequela del Crocefisso Risorto: «Gesù Cristo nostro Signore: ecco l’Evangelo, ecco il significato della storia. In questo nome si toccano e si divido­no due mondi, si tagliano due piani, uno sco­nosciuto e uno conosciuto. Quello conosciuto è il mondo della “carne”, creato da Dio ma decaduto dalla sua originaria unità con Dio, e perciò bi­sognevole di salvezza; il mondo del­l’uomo, del tempo, delle cose, il nostro mondo. Questo piano conosciuto viene tagliato da un altro sconosciuto, il mondo del Padre, il mondo della crea­zione originaria e della redenzione finale. Ma questa relazione tra noi e Dio, fra questo mondo e il mondo di Dio, ha da essere conosciuta. Vedere la linea di intersezione tra i due mondi non è una cosa che va da sé. Il punto della linea di intersezione, nel quale questa può essere veduta, ed è effetti­vamente veduta, è Gesù, Gesù di Na­zaret, il Gesù “storico”, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne. “Gesù”, come indicazione storica, significa il luogo di rottura tra il mon­do a noi conosciuto e un altro scono­sciuto»[18]. Cristo non è la risposta tranquilla alle nostre domande, ma la sovversione di esse. Solo dopo aver portato il credente nel fuoco della desolazione, il Dio rivelato e nascosto diviene il Dio delle riconciliazione e della pace: «Dio, se ci vuol rendere viventi, ci uccide» (Lutero). Dio non è risposta, è custodia: in Lui soltanto restano l’ultima Parola e l’ultimo Si­lenzio, anche se qui ed ora ci è già dato di acco­glierli in noi nella speran­za della fede.

b) I cristiani d’Europa al servizio della riconciliazione

Vivere il dono della riconciliazione offerta in Gesù Cristo significa per i cristiani coniugare sempre nuovamente il loro esodo e quello della comunità degli uomini, in cui vivono, all’avvento inquietante e trasformante del Dio vivo. Questa coniugazione esige che siano rispettati nella loro specificità i momenti dell’esodo e dell’avvento, e che perciò non si risolva l’alterità in semplice ripetizione o proiezione dell’identità, né che questa venga semplicemente annullata davanti al Mistero santo. Viene allora a profilarsi una lista di priorità, che conseguono da quanto è stato detto, una sorta di “decalogo della riconciliazione”, che, particolarmente oggi in Europa, si offre come sfida alla riflessione e alle scelte non solo di ogni credente, ma anche delle Chiese e comunità ecclesiali dell’intero continente.
In rapporto al nostro essere in esodo due urgenze sembrano delinearsi perché si realizzino cammini di riconciliazione. In primo luogo è necessario che la condizione esodale sia accettata e vissuta come tale: ciò significa che ai singoli credenti ed alle Chiese è domandato di vivere in un continuo movimento di esodo da se stessi e di trascendenza verso l’altro, che ci viene incontro. Il primo precetto di un possibile “decalogo” della riconciliazione potrebbe allora suonare così: «Non chiuderti in te stesso, prigioniero delle tue angosce o delle tue difese!». Questa richiesta implica l’urgenza di aprirsi all’ascolto e all’accoglienza dell’altro, che ci raggiunge nella comunità di appartenenza e al di fuori di essa, con le sue sfide, le sue peculiarità, i suoi bisogni, le sue diversità. Di qui un secondo possibile appello, che sottolinea l’urgenza di trascendere non solo la chiusura rassicurante del singolo, ma anche quella del gruppo, etnico, culturale o religioso cui si appartiene: «Non chiuderti nell’appartenenza rassicurante o nell’egoismo legato all’interesse del tuo gruppo!». Per i popoli del continente europeo questo appello invita ad «abbattere le frontiere di un’istintiva conflittualità che oppone i diversi, i muri della diffidenza e dell’ostilità tra le culture e le etnie, le condizioni dei poveri e dei ricchi, le religioni e le nazioni»[19]. Per le Chiese e comunità ecclesiali lo stesso precetto veicola l’urgenza di liberarsi dagli sterili confessionalismi, che non hanno nulla a che vedere con la fedeltà alla propria identità richiesta dal Signore: essere fedeli al dono di Dio esige anzi generosità ed ospitalità dell’altro da sé, e quindi spirito di apertura e di ospitalità verso tutti, qualunque sia la loro provenienza o la loro appartenenza.
Questi due precetti, volti a negare ogni possibile chiusura del movimento esodale del singolo o della comunità, si collegano immediatamente agli appelli positivi, relativi al riconoscimento e all’accoglienza dell’avvento dell’altro: in quanto ciascun uomo è fatto per trascendere se stesso verso il Mistero ultimo, è anche chiamato alla confessione del primato assoluto dell’Altro trascendente e sovrano, che viene a lui nei segni della creazione e nella storia della salvezza. L’appello potrebbe formularsi così: «Apriti al Mistero santo, che avvolge te e tutto ciò che esiste, ed aiuta il cercatore del Mistero che è in Te e in ogni cuore inquieto a riconoscerne i segni nella vita e nella storia!» In quest’Europa di fine millennio questo precetto evidenzia il bisogno urgente di riproporre la centralità della questione di Dio e delle cose ultime, superando l’arido scientismo e la chiusure legate alle presunzioni totalizzanti della ragione ideologica, per confessare i limiti della conoscenza e aprirsi nello stupore e nella disponibilità del cuore all’ascolto del Mistero. Ripartire da Dio è per l’Europa post-moderna e per tanti aspetti secolarizzata urgenza prioritaria per tutti! L’altro precetto collegato al riconoscimento dell’avvento nel suo realizzarsi effettivo veicola l’invito ad aprirsi al valore di ogni alterità che ci raggiunga e ci visiti come singoli e come comunità, intendendola non come concorrenza o minaccia, ma come promessa e come dono. Si tratta di superare la logica dell’affermazione orgogliosa di sé e della comunità di appartenenza mediante l’effettiva ammissione della dignità e del valore del diverso: «Rispetta l’altro nella sua diversità e sii pronto a cogliere il dono e la ricchezza che in quanto tale rappresenta per te e per la tua comunità!» Al singolo e alla comunità è domandato di rinunciare a disporre dell’altro secondo la logica esclusiva del proprio interesse, rifiutando ogni ricorso a metodi violenti in tutte le possibili forme, fisiche o psicologiche, per misurarsi sulle potenzialità positive che ogni incontro con l’altro, pur nelle oggettive difficoltà che comporta, può rappresentare. L’unità di questo precetto col precedente è colta facilmente se si è pronti a riconoscere l’alterità penultima come traccia dell’Altro ultimo e trascendente. L’accoglienza dell’una è segnale per l’accoglienza dell’Altro[20].
Il riconoscimento di Sè come bisogno e domanda aperta e l’accoglienza dell’avvento dell’altro, tanto nella forma del Mistero ultimo, quanto in quella del prossimo e del vicino e in generale di tutto ciò che può dirsi penultimo, non sono ancora sufficienti a realizzare l’esperienza della riconciliazione come dono dall’alto e sorgente di vita nuova. Perché questa si compia è necessaria la confessione dell’effettivo avvento del Dio vivo fra noi: si pone qui lo spazio della fede, con cui il cuore umano si apre al dono di Dio e si lascia plasmare da Lui. Questa esigenza in forma d’appello potrebbe esprimersi così: «Accogli il dono di Dio offerto in Gesù Cristo nell’obbedienza della fede. Non essere incredulo, ma credente e confessa il solo nome in cui è data agli uomini la riconciliazione: il Signore Gesù!» Il richiamo alla singolarità di Gesù Cristo è costitutivo della fede cristiana: senza di esso non c’è fede, né comunità della salvezza, né urgenza e passione missionaria. La modernità europea ha messo in discussione questo punto: in nome della pretesa di universalità del vero raggiunto dalla ragione adulta ed emancipata, si è contrapposta la forza incontestabile delle verità razionali (“Vernunftswahrheiten”), alla debolezza e caducità delle verità legate ai fatti o agli eventi (“Geschichtswahrheiten”). Fra queste si annoverava la verità cristiana, legata alla storia del Profeta galileo. La crisi di questo impianto veritativo, mostratasi nella violenza prodotta dalle varie ideologie, tutte fondate su pretese assolute di verità, ha fatto riscoprire il valore della singolarità del vero, di quell’“universale concretum et personale”, che la rivelazione cristiana confessa in Gesù Cristo. La verità non è qualcosa che si possieda, in una pretesa razionalistica tanto ambiziosa, quanto insufficiente e violenta: la verità è Qualcuno che ci possiede, il Dio vivente e santo che viene a visitarci nel Suo Figlio incarnato. Confessare Gesù Cristo è allora urgenza imprescindibile di chi non rinunci alla passione della verità, nonostante la crisi dei modelli veritativi della razionalità moderna: e questa confessione apparirà tanto più convincente rispetto al sospetto debolista della post-modernità, quanto più sarà resa a partire da un’esperienza vissuta di contemplazione e di sequela del Signore crocefisso e risorto. In quest’Europa di fine millennio si chiede ai cristiani di render ragione della loro speranza in modo convinto e perseverante, con dolcezza e rispetto verso tutti (cf. 1 Pt 3,15), ma anche con la convinzione dell’urgenza indilazionabile di questo compito di evangelizzazione. Quanto più i singoli credenti e le Chiese d’Europa si nutriranno dello spirito delle beatitudini, quanto più vivranno il primato della dimensione contemplativa della vita, tanto più si riconosceranno chiamati a servire i popoli del continente, segnati dalla crisi, con la testimonianza e l’annuncio del Vangelo. Questo impulso scaturente dalla fede viva e dall’amore del Cristo può essere reso nell’appello seguente, rivolto alle Chiese e ai singoli credenti: «Vivi la Tua fede in modo da irradiare la forza e la bellezza della riconciliazione donata in Cristo e da annunciarla a tempo opportuno e inopportuno come buona novella per ogni uomo e per tutto l’uomo, oltre che per l’intera comunità dei popoli e delle Chiese d’Europa!» È il forte invito che Giovanni Paolo II ha più volte rivolto a una “nuova evangelizzazione”, e che riguarda tutti i cristiani, qualunque sia la confessione o la tradizione di appartenenza.
L’incontro fra esodo e avvento, celebrato e vissuto nella fede in Gesù Cristo, è sorgente di vita nuova per i credenti e per le Chiese: questa novità di vita può essere presentata secondo quattro istanze fondamentali, che traducono nel concreto delle relazioni personali e comunitarie l’impegno al servizio della riconciliazione. In primo luogo, l’accoglienza della carità divina esige di esprimersi in un’etica della solidarietà, che riconosca i bisogni altrui, soprattutto dei più deboli e dei più poveri, come diritti su cui verificarsi e per cui impegnarsi. «Sii solidale con l’altro, riconoscendo nel suo bisogno e nella sua debolezza il suo diritto all’impegno tuo e della tua comunità civile ed ecclesiale!» In un’Europa segnata drammaticamente dalle tensioni fra etnie e nazionalismo, nel contesto della crescente globalizzazione dell’economia, col rischio connesso della riduzione dei posti di lavoro, mentre si fa strada la tendenza a vanificare le conquiste dei lavoratori e dello stato sociale in nome del primato dell’economia e del profitto, quest’appello alla solidarietà appare quanto mai urgente: senza solidarietà, professata e vissuta nel concreto, nessun cammino di riconciliazione apparirà credibile e risulterà efficace. È necessario sostenere decisamente il primato della persona sulla mera logica di mercato e sull’assolutizzazione del profitto: e questo potrà essere fatto non solo ispirandosi al progetto di Dio per un’autentica crescita umana, quale è rivelato in Gesù Cristo e proclamato dalla Chiesa, ma anche attualizzando il compito che l’Europa ha spesso svolto come custode e maestra di diritto a partire dalle sue radici cristiane, specialmente nel processo di emancipazione delle classi e dei gruppi sfruttati e dipendenti. L’etica della solidarietà andrà non di meno coltivata in ordine alla risoluzione dei conflitti locali seguiti alla caduta del muro di Berlino, particolarmente nella ex Unione Sovietica e nei Balcani: mentre occorre riconoscere la debolezza e perfino la latitanta dell’azione europea in questo campo, si deve non di meno richiamare il dovere di coscienza critica che i cristiani e le Chiese possono svolgere in vista dell’elaborazione e della realizzazione di progetti e itinerari di effettiva riconciliazione nella giustizia e nella pace.
Non sarebbe credibile questa azione ispirata alla solidarietà se i credenti in Cristo non mostrassero nei fatti la loro capacità di accoglienza reciproca e di dialogo all’interno delle Chiese e comunità ecclesiali, oltre che fra di esse e nell’ambito interreligioso. Se l’ecumenismo è compito ineludibile per i cristiani del continente che è stato culla delle divisioni, non meno urgente appare il dialogo interreligioso in un’Europa, che i fenomeni accelerati di immigrazione di questi ultimi anni hanno sempre più reso multietnica e pluralistica quanto alle fedi religiose. Si potrebbe tradurre questa urgenza nel precetto seguente: «Vivi la passione dell’unità del Corpo di Cristo, impegnandoti nella ricerca di una comunione piena con tutti i credenti in Lui, e accogli con rispetto la diversità religiosa, promuovendo il dialogo e la collaborazione con tutti i credenti in Dio, a qualunque fede appartengano!» Si può ritenere che sarà proprio il continente europeo il grande laboratorio in cui potranno essere superati gli integralismi e realizzate quelle esperienze di conoscenza reciproca, di scambio e di collaborazione nella verità e nella carità, che potranno essere offerte come modello e anticipazione su scala mondiale.
Lo spirito di solidarietà e di dialogo religioso e civile non esprimerà però compiutamente il dono della riconciliazione se non saprà contemporaneamente aprirsi alle dimensioni della mondialità: in un mondo che sempre più si presenta come “villaggio globale”, in cui i fenomeni di dipendenza economica, sociale e politica fra popoli e continenti sono sempre più marcati, non è possibile pensare che l’Europa possa sottrarsi al riconoscimento delle proprie responsabilità e dei propri compiti in vista di un nuovo e più giusto ordine economico internazionale e di un più corretto rapporto degli esseri umani con l’intero creato. In queste relazioni su scala mondiale è urgente passare «dalla conflittualità e dall’individualismo alla fraternità, cioè alla realizzazione della pacifica convivenza dei popoli», in modo particolare «debellando quelle povertà che non sono endemiche ma risultato di uno scompenso economico che produce emarginazione e miseria su tanta parte dell’umanità», non senza sottolineare «il dovere dell’assunzione di responsabilità da parte delle nazioni europee verso i paesi già territorio di conquista coloniale, ove la convivenza pacifica non trova spazio e il sottosviluppo mette a rischio la sopravvivenza delle persone»[21]. A questo impegno di ordine economico, sociale e politico si aggiunge quello nei confronti dell’ambiente, perché la sensibilità ecologica e la conseguente azione di salvaguardia del creato ispirino i comportamenti collettivi ed individuali, nella consapevolezza che la sopravvivenza equilibrata e salutare dell’ecosistema è affidata alla cura di tutti e di ciascuno e riguarda ogni persona ed ogni collettività umana. Questo insieme di urgenze potrebbe formularsi nell’appello seguente: «Abbi consapevolezza delle tue responsabilità nei confronti dell’intera famiglia umana e della grande casa che è il mondo, agendo in modo da favorire la crescita della qualità della vita di tutti nella giustizia e nella salvaguardia del creato!»
La vita nuova scaturente dal dono della riconciliazione è infine aperta al compimento delle promesse di Dio nel tempo in cui il Cristo consegnerà tutto a Dio Padre, e Dio sarà tutto in tutto (cf. 1 Cor 15,28): la tensione verso la compiuta riconciliazione escatologica esige una continua riforma delle posizioni raggiunte, un incessante bisogno di conversione e di rinnovamento per tirare sempre più nel presente degli uomini l’avvenire di Dio. Questa tensione all’“éschaton” richiede da una parte di porre gesti anticipatori, che siano carichi di valenza profetica sulla base del dono già offerto agli uomini in Cristo, e dall’altra di non considerarsi mai arrivati da parte dei singoli credenti e delle Chiese: «Non est status in via Dei: immo mora peccatum est!» (San Bernardo). La vita nuova di chi si è lasciato riconciliare con Dio trova il suo programma nelle beatitudini, che sono al tempo stesso il frutto del dono di Dio e l’esperienza esigente, che anticipa il compimento della Sua promessa. La non violenza dei pacifici è lo stile proprio di chi davanti ai conflitti crede nella possibilità impossibile di Dio e del Suo amore per gli uomini. Specialmente nel continente europeo, dove più forte appare la crisi dei grandi modelli ideologici prodotti dall’epoca moderna e dove più grande è la tentazione della rinuncia nichilista e delle evasioni deresponsabilizzanti, occorre che i cristiani e le Chiese pongano in atto gesti profetici, e siano disposti a cammini di conversione, di riforma e di servizio della carità. Si potrebbe veicolare quest’ultimo insieme di esigenze con la formulazione dell’appello seguente: «Vivi in costante conversione e riforma e sii aperto alle sorprese di Dio, avendo il coraggio di pagare il prezzo più alto perché la riconciliazione promessa prenda corpo nella vita degli uomini!».
Il “decalogo della riconciliazione” per l’Europa di fine millennio, ed in particolare per i cristiani e per le Chiese in essa operanti, risulta così tracciato secondo le grandi linee conseguenti all’approfondimento teologico della riconciliazione come frutto dell’incontro di esodo umano e avvento divino in Gesù Cristo e nella fede in Lui: richiamare questo decalogo nell’insieme delle sue formulazioni sia al tempo stesso la sfida, la preghiera e la promessa per ognuno di noi, che abbiamo creduto al vangelo della riconciliazione, dono di Dio e sorgente di vita nuova.

«Tu che credi in Cristo Gesù, singolo discepolo o Chiesa del Suo Amore, ascolta:

1. Non chiuderti in te stesso, prigioniero delle tue angosce o delle tue difese!

2. Non chiuderti nell’appartenenza rassicurante o nell’egoismo legato all’interesse del tuo gruppo!

3. Apriti al Mistero santo, che avvolge te e tutto ciò che esiste, ed aiuta il cercatore del Mistero che è in Te e in ogni cuore inquieto a riconoscerne i segni nella vita e nella storia!

4. Rispetta l’altro nella sua diversità e sii pronto a cogliere il dono e la ricchezza che in quanto tale rappresenta per te e per la tua comunità!

5. Accogli il dono di Dio offerto in Gesù Cristo nell’obbedienza della fede. Non essere incredulo, ma credente e confessa il solo nome in cui è data agli uomini la riconciliazione: il Signore Gesù!

6. Vivi la Tua fede in modo da irradiare la forza e la bellezza della riconciliazione donata in Cristo e da annunciarla a tempo opportuno e inopportuno come la buona novella per ogni uomo e per tutto l’uomo, oltre che per l’intera comunità dei popoli e delle Chiese d’Europa!

7. Sii solidale con l’altro, riconoscendo nel suo bisogno e nella sua debolezza il suo diritto all’impegno tuo e della tua comunità civile ed ecclesiale!

8. Vivi la passione dell’unità del Corpo di Cristo, impegnandoti nella ricerca di una comunione piena con tutti i credenti in Lui, e accogli con rispetto la diversità religiosa, promuovendo il dialogo e la collaborazione con tutti i credenti in Dio, a qualunque fede appartengano!

9. Abbi consapevolezza delle tue responsabilità nei confronti dell’intera famiglia umana e della grande casa che è il mondo, agendo in modo da favorire la crescita della qualità della vita di tutti nella giustizia e nella salvaguardia del creato!

10. Vivi in costante conversione e riforma e sii aperto alle sorprese di Dio, avendo il coraggio di pagare il prezzo più alto perché la riconciliazione promessa prenda corpo nella vita degli uomini!»


[1] Per le riflessioni che seguono rimando specialmente al volume primo della mia Simbolica Ecclesiale, intitolato La parola della fede, Cinisello Balsamo 1996, in particolare ca. I e II.

[2] M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Torino 19862, 377s (§ 50).

[3] Ib., 379.

[4] Agostino, Confessiones, I, 1.

[5] K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, Alba 1977, 95.

[6] Ib.

[7] K. Rahner, Uditori della parola, Torino 1967, 97.

[8] Ib., 145.

[9] Ib., 208.

[10] Ib., 153.

[11] I racconti dei Chassidim, a cura di M. Buber, Milano 1979, 647.

[12] Cf. M. Heidegger, Perché i poeti?, in Id., Sentieri interrotti, Firenze 1984, 247ss.

[13] D. Bonhoeffer, Etica, Milano 1969, 91.

[14] J.-P. Sartre, L’Essere e il Nulla (1943), tr. it. G. Del Bo, Milano 19703, 738.

[15] Per un inquadramento organico delle riflessioni qui proposte ed un maggiore approfondimento rinvio al volume settimo della mia Simbolica Ecclesiale: Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l’inizio e il compimento, Milano 19912, specie la Parte Prima, 36ss. Cf. pure B. Forte, In ascolto dell’Altro. Filosofia e rivelazione, Brescia 1995.

[16] Cf. su questi temi B. Forte, «Offenbarung» aut «re-velatio»? Dalla Scrittura alla Parola ed al Silenzio di Dio, in Archivio di Filosofia 60(1992) 389-402.

[17] K. Barth, Prefazione alla seconda edizione del Römerbrief, in Le origini della teologia dialettica, a cura di J. Moltmann, Brescia 1976, 145.

[18] K. Barth, L’Epistola ai Romani, a cura di G. Miegge, Milano 1974, 17.

[19] Pax Christi Italia, Contributo in vista della Seconda Assemblea Ecumenica Europea (Graz, giugno 1997), testo policopiato.

[20] In questa luce si comprende come nessuna etica sia possibile senza un riconoscimento di trascendenza: dove non ci si apre all’alterità e si corrisponde ad essa nella responsabilità, non c’è che autoaffermazione inospitale e perciò volontà di potenza e sopraffazione dell’altro. È questa in specie anche la condizione di possibilità della cosiddetta “etica laica”, che in tanto può fondarsi in quanto viva di un movimento di trascendenza verso gli altri e di corrispondenza ai loro bisogni: il credente riconoscerà e rispetterà questa possibilità, senza peraltro mai rinunciare a riconoscervi ed a proporre i segnali e le urgenze di ulteriore trascendenza.

[21] Ib.

Riconciliarsi con l’Altro oggi in Europa

1. L’esodo come attesa della Parola: il bisogno della riconci­liazione
a) “Cor inquietum”: la struttura originaria dell’attesa
b) “In finibus Europae”: il bisogno epocale della riconciliazione

2. L’avvento della Parola: il dono della riconcilia­zione
a) “Re-velatio Dei”: la Parola procedente dal Silenzio
b) “Exitus – reditus”: l’esodo verso il Padre

3. Riconciliarsi con l’Altro oggi in Europa
a) Dove l’esodo incontra l’avvento: la fede
b) I cristiani d’Europa al servizio della riconciliazione

Fra l’esodo della condizione umana, in permanente ricerca e attesa, e l’avvento del Dio vivo, che con la Sua Parola e il Suo Silenzio viene ad abitare il tempo degli uomini, la riconciliazione si pone come frutto del loro incontro, dono di Dio e sorgente di vita nuova: essa sta sulla frontiera, conti­nua­mente rinviando al­l’una e all’altra parte, grazia d’alleanza fra la fragile terra dove poggiano i nostri piedi e l’abisso insondabile del Mistero divino. Due movi­menti l’attraversa­no, fra loro totalmente asimmetri­ci: quello del pellegrino, cercatore del senso, assetato di una patria, su cui radicare il cammino e per cui combattere la propria lotta con la morte; e quello, senza il quale neanche l’altro esisterebbe, dell’Origine, presupposto e fondamento di tutto ciò che esiste, che viene a noi dal Suo insondabile Silen­zio. Il ponte che attraversa questa asim­metria è Gesù Cristo, colui che è in persona l’alleanza fra esodo e avvento: è per questo che la riconciliazione, tanto del cuore umano inquieto, quanto delle società complesse di questa Europa di fine millennio, è la grande promessa e la grande sfida della fede in Lui[1].

1. L’esodo come attesa della Parola: il bisogno della riconci­liazione

a) “Cor inquietum”: la struttura originaria dell’attesa

Basta uno sguardo all’esistenza uma­na in questo mondo per constatare come e quanto la vita degli uomini sia determinata dal loro inesorabile essere “gettati” verso la morte: «La morte sovrasta l’Esserci. La morte non è affatto una semplice presen­za non ancora attuatasi, non è un mancare ultimo ridotto al minimo, ma è, prima di tutto, un’imminenza che sovrasta»[2]. Da questa situazione di radicale precarietà nasce l’angoscia: «L’es­ser-gettato nella morte si rivela all’Es­serci nel modo più originale e pene­trante nella situazione emotiva dell’an­goscia»[3]. E dall’angoscia, come permanente e incombente esperienza del nulla segnalato dall’inter­ruzione, sorge il domandare originario che ci rende pensanti: se non esistessero la sofferenza e la morte, non si accenderebbe la vita del pensiero, non si schiude­rebbe il mondo alla coscienza. È il patire che suscita in noi la doman­da, accendendo la sete di ricerca, lasciando aperto il bisogno di senso: il pensiero nasce dal dolore.
La sola via che sembra aprirsi al­l’uomo per uscire dalla situazione dell’angoscia è quella di capovol­gere la direzione del cammino: resistendo al destino che sembra gettarlo verso il nulla, l’uomo è chiamato a “pro-gettarsi”, ritrovando in se stesso la sorgente di una vita più forte dell’apparente trionfo della morte. È così che dalla morte si nasce pellegrini verso la vita: vivere non è sol­tanto imparare a morire, ma anche lottare per dare senso alla vita. Dove l’uomo non si arrende di fronte al destino della necessità e si fa interrogante, lì si rivela la dignità della vita, il senso e la bellezza di esistere. Lì l’uomo si riconosce non come un condannato alla terra, ma in essa e per essa come un «mendi­cante del cielo» (J. Mari­tain): «Hai fatto il nostro cuore per Te ed inquieto è il cuore nostro finché non riposi in Te»[4].
L’uomo appare dunque come un cercatore di senso, che, lottando contro l’appa­ren­te trionfo della morte, è provocato, interrogato ed attratto dall’ultimo orizzonte, dove trionfi la vita. In quanto questo orizzonte è contesta­zione radicale della vittoria della morte, esso si offre come il mistero assoluto dell’esistenza, il grembo che avvolge la vita e la custodisce oltre il silen­zio dell’interruzione. Attratto da questo ultimo orizzonte, che lo rende pensan­te, l’essere umano sperimenta se stesso come “auto-trascendenza” (Karl Rahner), esodo verso il Mistero che avvolge ogni cosa, deside­rio e ricerca dell’inaffer­rabile e dell’indefinibile, non riducibile a una cattura indiscre­ta. Di questo orizzonte non si può disporre: «L’ampiezza infinita che tutto abbraccia e tutto può abbrac­ciare non si lascia a sua volta abbracciare…»[5]. All’o­riz­zonte misterioso della trascendenza ci si può solo disporre in attesa, in ascolto: «L’orizzonte della trascendenza si dà a noi nel modo di uno che si rifiuta, nel modo del silen­zio, della lonta­nanza, di uno che si mantiene costantemente in uno stato di non espressi­vi­tà, cosicché qualsiasi discorso da parte sua, per essere per­cepibile, ha sempre bisogno che ten­diamo l’orecchio a un silenzio»[6].
La struttura originaria dell’esistenza umana è per­tanto il suo movimento esodale, la sua autotrascendenza: «L’uomo è spiritua­le, vive cioè la sua vita in una continua tensione verso l’Asso­luto, in una apertura a Dio»[7]. Questo movimento di autotrascen­denza è originario, ma non si compie nella forma di una pura e semplice necessità, che escluda la pos­sibilità del rifiuto e la dignità dell’assenso: la mi­steriosità del reale è anzi precisamente la condi­zione che rende possibile l’esercizio della libertà da parte dello spirito finito. Il libero na­scondersi e rivelarsi di Dio è il fonda­mento ontologico della condizione di libertà della creatura. Senza l’assenso gratuito dell’amore né Dio si aprirebbe all’uomo, né l’uo­mo si aprireb­be a Dio. L’auto­trascendenza non si realizza al di fuori di una scelta, di un’autodeterminazione morale: l’esodo della condizio­ne umana è cammino di libertà. Perciò si può dire che «l’uomo è in ascolto della parola o del silenzio di Dio nella mi­sura in cui si apre, amando liberamen­te, a questo messaggio della parola o del silenzio del Dio della rivelazio­ne»[8].
La decisione della libertà, di cui l’autotrascendenza ha bisogno per rea­lizzarsi, si compie a sua volta non in astratto, ma in rapporto a un evento concreto, con cui si incontri l’apertura del cuore. È pertanto necessario che questo luogo dell’incontro con la trascendenza del Mistero venga a pre­cisarsi e che l’esistenza come esodo si disponga all’ascolto di un possibile avvento dell’Altro nell’orizzonte del tempo: «L’uomo è l’ente che nella sua storia deve tendere l’orecchio a un’e­ventuale rivelazione storica di Dio attraverso la parola umana»[9]. L’atto di una possibile autocomunicazio­ne di Dio non può che essere storicamente determinato, perché l’uomo è spirito come essere storico e comunica l’og­getto della sua conoscenza mediandolo nella parola, pur senza alcuna pretesa di esaurirlo: «Finché quindi l’uomo non partecipa della visione immediata di Dio, è sempre ed essen­zialmente _ in forza della costituzione fondamen­tale della sua esistenza _ un uditore della parola di Dio, colui che deve prevedere una possibile rivelazione di Dio, che non consiste nella manifesta­zione diretta del contenuto dell’oggetto rivelato nella sua propria essenza, ma nella sua comunicazione mediante segni rappresen­tativi, che indichino ciò che deve essere rivelato, pur essendo da essi diverso»[10]. L’“uditore della Parola” è il pellegrino del Mistero, la domanda aperta, tesa verso il possibile avvento della Parola che rompa il silenzio della morte e riveli l’origine, il grembo e il destino della vita…

b) “In finibus Europae”: il bisogno epocale della riconciliazione

Se l’uomo è strutturalmente un pellegrino verso la vita, aliena­zione è il sentirsi arrivato, non più esule in questo mondo ma possessore, domina­tore di un oggi che vorrebbe fermare la permanente tra­scenden­za del cammino: «L’esilio vero d’Israele in Egitto fu che gli Ebrei avevano imparato a sopportarlo»[11]. L’esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non si ha più nel cuore la nostalgia della patria. L’illu­sione di sentirsi arrivati, il preten­dersi compiuti nella propria vicenda, il cat­turare Dio nella misura dell’orizzonte penultimo, è la malattia mortale: si è morti quando non si vive più l’inquie­tudine e la passione del doman­dare, il desiderio del cercare ancora. E questo può accadere anche all’interno dell’espe­rienza religiosa, compresa quella cri­stiana: perciò anch’essa sta sotto il permanente giudizio della Croce. L’uomo che si ferma, sentendosi padrone e sazio della verità, per il quale perciò essa non è più il Mistero ultimo da cui lasciarsi sempre più profon­damente possedere, è l’uomo che ha oscurato in se stesso non solo l’apertura a Dio, ma anche la propria dignità di persona umana.
È precisamente la mancanza di quest’ansia di ricerca che sembra costituire la debolezza della coscienza europea nell’epoca cosiddetta “post-moderna”: se la ragione adulta e illuminata della modernità pretendeva di spiegare tutto, la post-modernità, inaugurata dalla crisi dei modelli ideologici conseguente alla violenza da essi stessi prodotta, si offre anzitutto come tempo che sta al di là della totalità luminosa dell’ideologia, tempo post-ideologico o del lungo addio, tempo di rinuncia e di declino rispetto alle presunzioni totalizzanti dell’idea. Se per la ragione adulta tutto aveva senso, per il pensiero debole della condizione post-moderna nulla sembra avere più senso. È tempo di naufragio e di caduta. È tempo di povertà, che – come osserva Heidegger – è «notte del mondo» non a causa della mancanza di Dio, ma a motivo del fatto che gli uomini non soffrono più di questa mancanza: la povertà, che ci rende malati, è l’indifferenza, il non soffrire più dell’infinito dolore dell’“assenza di patria” (“Heimatlosigkeit”), la perdita del gusto a cercare le ragioni ultime del vivere e del morire umano[12].
Si profila così l’estremo volto della crisi epocale del secolo che volge alla fine: il volto della décadence. Così la descrive Bonhoeffer: «Non essendovi nulla di durevole, vien meno il fondamento della vita storica, cioè la fiducia, in tutte le sue forme. E poiché non si ha fiducia nella verità, la si sostituisce con i sofismi della propaganda. Mancando la fiducia nella giustizia, si dichiara giusto ciò che conviene… Tale è la situazione del nostro tempo, che è un tempo di vera e propria decadenza»[13]. La decadenza non è l’abbandono dei valori, ma la rinuncia a cercare qualcosa per cui valga la pena di vivere. La décadence svuota di forza il valore, perché non ha interesse a misurarsi con esso. Essa priva l’uomo della passione per la verità, gli toglie il gusto di combattere per una ragione più alta, lo spoglia di quelle motivazioni forti che l’ideologia ancora sembrava offrirgli. La decadenza vorrebbe persuadere ad un ottimismo ingenuo, universale, che non ha bisogno di tenere ferma la negatività dell’avversario, perché tende solo a piegarlo al proprio calcolo e al proprio interesse, senza curarsi della verità.
Ciò di cui si è più malati oggi è la mancanza di passione per la verità: è questo il volto tragico dell’«assenza di patria». Nel clima della decadenza tutto cospira a portare gli uomini a non pensare più, a fuggire la fatica e la passione del vero, per abbandonarsi all’immediatamente fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata. È il trionfo della maschera a scapito della verità: è il nichilismo della rinuncia ad amare, dove gli uomini sfuggono al dolore infinito dell’evidenza del nulla fabbricandosi maschere, dietro cui celare la tragicità del vuoto. Nel clima della decadenza, perfino l’amore diventa maschera e i valori si riducono a coperture da sbandierare per nascondere l’assenza di significato: l’uomo si risolve in una «passione inutile»[14].
Questa parabola della modernità, che dall’ebbrezza ideologica giunge alla caduta del senso e al tempo della décadence, è l’orizzonte del nostro attuale agire e pensare da cristiani nell’Europa che cambia: la “cultura forte”, espressione dell’ideologia, si è frantumata nei tanti rivoli delle “culture deboli”, in quella “folla delle solitudini“, in cui è soprattutto rilevante la mancanza di orizzonti comuni, quella penuria di speranze “in grande”, che piega ciascuno nel corto orizzonte del suo “particulare”. Dove muoiono le grandi speranze, trionfa il calcolo di bassa lega: alle ragioni del vivere e del vivere insieme, si sostituisce la rivendicazione dell’immediatamente utile e conveniente, la protesta fondata nell’interesse dall’ottica breve, spesso ottusa e velleitaria. La fine delle ideologie e la frantumazione che ne è conseguita appare così veramente come la pallida avanguardia dell’avvento dell’idolo, che è il relativismo totale di chi non ha più alcuna fiducia nella forza della verità. Siamo malati di assenza, poveri di speranza e di grandi ragioni: dove manca la passione per la verità, tutto è possibile, e perfino il solidarismo può coniugarsi a calcoli volgari, declinandosi in progettazioni di piccolo cabotaggio…

2. L’avvento della Parola: il dono della riconcilia­zione

a) “Re-velatio Dei”: la Parola procedente dal Silenzio

Per la fede cristiana è il grido dell’ora nona a trafiggere la chiusura totalizzante dell’ideologia, lasciando irrompere nel penultimo l’imminenza sovrana dell’ultimo. Cristo crocefisso è il luogo in cui l’Altro è venuto a dirsi (e a tacersi) per noi. L’incontro con la Parola della Croce libera e cambia il cuore e la vita: Cristo davanti a Pilato ci ricorda che la verità non è qualcosa che si esibisce come un sistema logico o come un castello di parole ben costruite. La verità è l’Innocente, che ci raggiunge con la discrezione della sua presenza d’amore: la Verità non è qualcosa che si possiede, ma Qualcuno che ci possiede nella comunione del Suo popolo fedele. Per riconoscere il volto dell’Altro, che solo può vivificare oggi la complessità delle culture e offrire il dono della riconciliazione, diventa allora necessario chiedersi quali tratti del Cristo sia necessario che i cristiani riscoprano e testimonino per parlare credibilmente di Lui a questo tempo di penuria della passione per la Verità, dopo la crisi della modernità e l’insorgente inquietudine postmoderna, di fronte all’abbandono del senso totalizzante ed all’emergere di nuove nostalgie del senso.
Il Dio della fede ebraico-cristiana è il Dio dell’avvento, l’Eterno che ha tempo per l’uomo. Venendo nella sto­ria, Egli dischiude il cammino, accende l’attesa, offre una promessa sempre più grande del compimento realizzato. Perciò il Suo avvento è “ri-velazio­ne”: uno svelarsi che vela, un venire che apre cammino, un ostendersi nel ritrarsi, che attira. A questa dialettica di apertura e di nascondimento rinvia lo stesso termine “re-velatio” (analogo al greco •B@6V8LR4H), in cui il pre­fisso “re_” (•B`) ha tanto il senso della ripetizione dell’i­dentico, quanto quello del passaggio alla condizione opposta: la rivelazione del Dio che viene toglie il velo che cela, ma è anche un più forte nascondere, è co­municazione di sé, che insepara­bil­mente si offre come un nuovamente “velare”. Perciò la tradizione ebraico-cristiana abbraccia accanto a una teo­logia della Parola, inseparabile da essa, una teologia del Silenzio: il dire di Dio non si compie mai senza un Suo più alto tacere…[15]
In questa luce, il Signore Gesù ci appare come la Parola uscita dal Silenzio, l’esodo di Dio da sé per amore nostro, il santuario vivente e santo, in cui l’alterità del Figlio rispetto al Padre ci apre alla Trinità di Dio. Nella tradizione teologica europea occidentale dell’epoca moderna, espressa in gran parte in tedesco, questo aspetto decisivo è stato oscurato a causa di uno slittamento semantico di grande portata: la re-velatio greco-latina è stata pensata sempre più come l’Offenbarung tedesca. Fra questi termini – impropriamente considerati equivalenti – c’è in realtà un’abissale differenza: la dialettica di apertura e di nascondimento, contenuta nei termini greco e latino, è persa in quello tedesco. Dove la revelatio è stata intesa come Offenbarung, e quindi come manifestazione totale, come disponibilità all’apertura senza riserve (da “offen” = “aperto”, e “bären” = portare in grembo e generare), lì si è aperta la via al trionfo dell’ideologia: in questo senso, Hegel a buon diritto può ritenersi il grande esegeta del cristianesimo, così come egli lo intendeva quale religione dell’Offenbarung, religione dell’aperto e non del segreto, del manifesto e non del chiuso. Ma è precisamente questa presunzione logocentrica, dove tutto è compreso, che ha generato la visione totalitaria del mondo, matrice di ogni possibile violenza sull’altro.
Il Dio di Gesù Cristo è tutt’altro che il Dio dell’Offenbarung, di una manifestazione totale ed indiscreta: è il Dio della re-velatio, che resiste ad essere volgarizzato in formule ideologiche pronte a spiegare ogni cosa. La riconciliazione compiuta dal Signore Gesù non è la “Versöhnung” idealistica, dove tutto è assunto e risolto in un compimento razionalmente accessibile, ma la pace raggiunta a caro prezzo, conquistata da Lui con il Suo sangue e offerta come dono da accogliere nell’umiltà e nell’oscurità della fede pervasa dalla carità e aperta alla speranza. Non è la riconciliazione del compimento, ma della promessa: un essere riconciliati “in spe”, nella continua vigilanza di chi si riconosce “già” salvato e tuttavia “non ancora” in patria. Alla re-velatio, allora, non si corrisponde con l’arroganza ideologica del possesso, ma con l’atteggiamento che il Nuovo Testamento definisce “obbedienza della fede” (cf. Rom 1,5). Anche qui l’etimo illumina e chiarisce: ob-audire in latino e ßB-“6@Z in greco stanno a dire l’ascoltare ciò che è sotto, dietro, nascosto. Alla revelatio si corrisponde aderendo alla parola, come discepoli dell’unico Verbo di Dio, uscito dal Silenzio. Ma la Parola è porta, che ci introduce negli abissi del divino Silenzio. Perciò l’incontro con Cristo nell’obbedienza della fede è il sì a trascendere la Parola verso gli abissi del Silenzio cui essa introduce e il no radicale ad ogni riduzione ideologica, logocentrica del cristianesimo. Se il cristianesimo è la religione della revelatio e dell’obbedienza della fede, esso non dovrà essere contrabbandato con formule totalizzanti, ideologiche, politiche, o perfino morali, né potrà essere svenduto come il supporto di una delle forze in gioco nella storia, qualunque sia il collateralismo che si voglia proporre. La fede nella rivelazione è nutrimento di una permanente vigilanza critica.
Accoglie allora veramente la Parola pronunciata nella carne solo chi ascolta il Silenzio, da cui essa proviene ed a cui essa dischiude. L’au­tentico “ascolto” del Verbo è udire il Silenzio al di là della Parola, il Padre di cui il Figlio è rivelazione nel miste­ro della sua incondizionata obbedienza: «Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (Gv 13,20). «La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato» (Gv 14,24). La Parola della rivelazione richiede cioè di essere trascesa, non nel senso che possa essere eliminata o messa in parentesi, perché questo precluderebbe ogni accesso alle pro­fon­dità divine, ma nel senso che essa è verità e vita proprio in quanto è via (cf. Gv 14,6), soglia che schiude sul Mistero eterno, porta per la quale è necessario passare per entrare nell’ovile delle pecore (cf. Gv 10,7). Si accoglie perciò veramente la parola soltanto quando la si “supera”, le si obbedisce “trasgredendola”, ascoltando cioè ciò che sta oltre e dietro e più in profondo rispetto ad essa: alla dialettica di apertura e di nascondimento, segnalata nella struttura della “re-velatio”, viene così a corrispondere il movimento di tra­scendenza proprio dell’obbedienza della fede, che non si ferma all’imme­diatezza del Verbo, ma la supera an­dando verso l’al di là del detto[16].
Di Cristo rivelatore del Padre e del dono della riconciliazione offerto in Lui si dovrà allora parlare tacendo e tacere parlando, secondo uno stile di annuncio convinto e fedele, fatto di discrezione, di presenza non chiassosa, politicamente non invadente, e tuttavia evocatrice, irradiante nella sua discrezione, tale da suscitare l’amore più grande, senza violentare la realtà o il cuore dell’uomo. In un’epoca di rigetto delle certezze forti dell’ideologia, qual è la nostra, si comprende come quest’annuncio debole, forte della “debolezza di Dio”, possa attrarre ed inquietare chi accetta di farsi pensante e di stare in ricerca ben più che proposte di sicurezze a buon mercato. Per lo stesso motivo, però, chi fugge la fatica di volersi umano in un continuo esodo da sé, fuggirà anche lo scandalo della Croce, e si rifugerà in quelle riconciliazioni a basso costo, che immediatamente soddisfano, mascherando il vuoto senza riempirlo…

b) “Exitus – reditus”: l’esodo verso il Padre

Gesù di Nazaret ci offre il dono della riconciliazione col Padre attraverso un ulteriore duplice esodo: l’esodo da sé fino all’abbandono della Croce, e l’esodo verso il Padre nella potenza della resurrezione. Accettando di esistere per il Padre e per gli uomini, Gesù è libero da sé in maniera incondizionata. Questa stessa libertà Egli chiede ai suoi discepoli per entrare nel dono della riconciliazione: la Chiesa della riconciliazione si profila perciò anzitutto come una comunità libera da interessi mondani, decisa a non servirsi degli uomini, ma a servirli per la causa di Dio e del Vangelo. Questa libertà può giungere fino all’esodo da sé senza ritorno dell’ora della Croce: così è stato per il Maestro, così potrà esser chiesto al discepolo. Al vertice del suo cammino di libertà Gesù si offre come l’Abbandonato della croce e la Sua comunità come l’“Ecclesia Crucis”. Questo aspetto è centrale nella fede cristiana: nel silenzio del Venerdì Santo la scelta del Profeta galileo tocca il suo culmine. «In humilitate et ignominia crucis revelatur Deus» (Lutero)! Quando dimenticassimo il volto del Crocifisso, dimenticheremmo il Vangelo del Suo amore. La Chiesa della riconciliazione è la comunità che vive della sequela dell’Abbandonato, pronta a lasciarsi riconoscere nel dono di sé senza ritorno, anche se in termini umani questo dovesse risultare improduttivo o alienante: così libera da sé da non cercare successi e guadagni di questo mondo, libera per il suo Dio, questa Chiesa deve tenersi sempre pronta a pagare il prezzo più alto per vivere l’obbedienza alla volontà del Signore.
È su questa via che la riconciliazione offerta in Cristo ci apre all’esodo verso il Padre, che dà alla vita e alla storia il loro senso pieno e schiude alla patria dell’amore: Cristo vive questo esodo in quanto è il Risorto, il Signore della vita. Proprio così Egli è il testimone dell’alterità e della sovranità di Dio rispetto a questo mondo, dell’Ultimo rispetto a ciò che è penultimo, rivelato come tale nel giudizio della Croce e Resurrezione del Povero. Il cristianesimo non è la religione del trionfo del negativo, ma resta, nonostante tutto e contro tutto, la religione della speranza: perciò i cristiani, anche in un mondo che ha perso il gusto a porsi la domanda del senso, devono continuare a vivere la passione del senso, avendo a cuore l’Eterno. Testimoniare l’orizzonte più grande, dischiuso dalla promessa liberante di Dio, vuol dire annunciare il Vangelo della riconciliazione all’inquietudine senza senso del nichilismo postmoderno. Il Risorto invia la Chiesa ad essere testimone del senso, anticipazione militante dell’avvenire promesso nella riconciliazione che già ora può essere accolta e vissuta.

3. Riconciliarsi con l’Altro oggi in Europa

a) Dove l’esodo incontra l’avvento: la fede

L’incontro di libertà pur nella permanente a­simmetria del rapporto fra l’uma­no andare e il divino venire, l’esperienza dell’allean­za dell’esodo e dell’avvento è la fede, vita nuova che sorge con l’accoglienza del dono della riconciliazione. Proprio per l’asimmetria da cui nasce, la fede non è pos­sesso e certezza, ma lotta, agonia. Come fu per Giacobbe al guado nella notte (cf. Gen 32,23-33), così per chi crede il Dio vivente è e resta l’assali­tore notturno, tutt’altro che il “Deus mortuus”, denunciato dalla ragione ideologica, o il “Deus otiosus”, esiliato dalla ragione strumen­ta­le. Il Dio della riconci­lia­zione è l’Altro, non riducibile alla misura umana: perciò è sempre «terribile cadere nelle mani del Dio vivente» (Eb 10,31)! Credere implica la continua lotta con una Alterità, che non può essere “risolta” né “fermata”: l’esodo non può contenere l’avvento, ma deve lasciarsi continuamente raggiungere e sovvertire da esso. Ecco perché il dubbio abiterà sempre la fede ed essa sarà combatti­mento, resistenza e resa: «Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato se­durre; mi hai fatto forza e hai preval­so… Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!” Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non pote­vo» (Ger 20,7. 9). La pace della fede, la gioia che il mondo non conosce, la bellezza che salverà il mondo, non è l’assenza di agonia e di passione, ma il vivere al tempo stesso in lotta con l’Altro e a Lui perdutamente arresi, conse­gnati allo Straniero, che invita: il Dio della fede è “fuoco divorante” (cf. Dt 4,24; Is 33,14; Eb 12,29); la riconciliazione che Egli offre non è comoda rassicurazione ideologica, ma caparra e anticipazione, da accogliere sempre di nuovo nell’impegno della speranza e della carità…
La fede tiene così insieme in maniera paradossale l’infinita distanza e l’inaudita prossimità, che la riconcilia­zione offerta in Cristo rende possibile fra gli uomini e Dio: «“Dio è in cielo e tu sulla terra”. Il rapporto di questo Dio a questo uomo, il rapporto di questo uomo a questo Dio è il tema della Bibbia e insieme la somma della filosofia. I filosofi chiamano questa crisi del conoscere umano “origine”. La Bibbia vede in questo punto cru­ciale Gesù Cristo»[17]. Nella fede l’Altro non è ricondotto al medesimo, ma mantenuto nella Sua alterità, e proprio così resta sorgente di vita nuova nella sequela del Crocefisso Risorto: «Gesù Cristo nostro Signore: ecco l’Evangelo, ecco il significato della storia. In questo nome si toccano e si divido­no due mondi, si tagliano due piani, uno sco­nosciuto e uno conosciuto. Quello conosciuto è il mondo della “carne”, creato da Dio ma decaduto dalla sua originaria unità con Dio, e perciò bi­sognevole di salvezza; il mondo del­l’uomo, del tempo, delle cose, il nostro mondo. Questo piano conosciuto viene tagliato da un altro sconosciuto, il mondo del Padre, il mondo della crea­zione originaria e della redenzione finale. Ma questa relazione tra noi e Dio, fra questo mondo e il mondo di Dio, ha da essere conosciuta. Vedere la linea di intersezione tra i due mondi non è una cosa che va da sé. Il punto della linea di intersezione, nel quale questa può essere veduta, ed è effetti­vamente veduta, è Gesù, Gesù di Na­zaret, il Gesù “storico”, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne. “Gesù”, come indicazione storica, significa il luogo di rottura tra il mon­do a noi conosciuto e un altro scono­sciuto»[18]. Cristo non è la risposta tranquilla alle nostre domande, ma la sovversione di esse. Solo dopo aver portato il credente nel fuoco della desolazione, il Dio rivelato e nascosto diviene il Dio delle riconciliazione e della pace: «Dio, se ci vuol rendere viventi, ci uccide» (Lutero). Dio non è risposta, è custodia: in Lui soltanto restano l’ultima Parola e l’ultimo Si­lenzio, anche se qui ed ora ci è già dato di acco­glierli in noi nella speran­za della fede.

b) I cristiani d’Europa al servizio della riconciliazione

Vivere il dono della riconciliazione offerta in Gesù Cristo significa per i cristiani coniugare sempre nuovamente il loro esodo e quello della comunità degli uomini, in cui vivono, all’avvento inquietante e trasformante del Dio vivo. Questa coniugazione esige che siano rispettati nella loro specificità i momenti dell’esodo e dell’avvento, e che perciò non si risolva l’alterità in semplice ripetizione o proiezione dell’identità, né che questa venga semplicemente annullata davanti al Mistero santo. Viene allora a profilarsi una lista di priorità, che conseguono da quanto è stato detto, una sorta di “decalogo della riconciliazione”, che, particolarmente oggi in Europa, si offre come sfida alla riflessione e alle scelte non solo di ogni credente, ma anche delle Chiese e comunità ecclesiali dell’intero continente.
In rapporto al nostro essere in esodo due urgenze sembrano delinearsi perché si realizzino cammini di riconciliazione. In primo luogo è necessario che la condizione esodale sia accettata e vissuta come tale: ciò significa che ai singoli credenti ed alle Chiese è domandato di vivere in un continuo movimento di esodo da se stessi e di trascendenza verso l’altro, che ci viene incontro. Il primo precetto di un possibile “decalogo” della riconciliazione potrebbe allora suonare così: «Non chiuderti in te stesso, prigioniero delle tue angosce o delle tue difese!». Questa richiesta implica l’urgenza di aprirsi all’ascolto e all’accoglienza dell’altro, che ci raggiunge nella comunità di appartenenza e al di fuori di essa, con le sue sfide, le sue peculiarità, i suoi bisogni, le sue diversità. Di qui un secondo possibile appello, che sottolinea l’urgenza di trascendere non solo la chiusura rassicurante del singolo, ma anche quella del gruppo, etnico, culturale o religioso cui si appartiene: «Non chiuderti nell’appartenenza rassicurante o nell’egoismo legato all’interesse del tuo gruppo!». Per i popoli del continente europeo questo appello invita ad «abbattere le frontiere di un’istintiva conflittualità che oppone i diversi, i muri della diffidenza e dell’ostilità tra le culture e le etnie, le condizioni dei poveri e dei ricchi, le religioni e le nazioni»[19]. Per le Chiese e comunità ecclesiali lo stesso precetto veicola l’urgenza di liberarsi dagli sterili confessionalismi, che non hanno nulla a che vedere con la fedeltà alla propria identità richiesta dal Signore: essere fedeli al dono di Dio esige anzi generosità ed ospitalità dell’altro da sé, e quindi spirito di apertura e di ospitalità verso tutti, qualunque sia la loro provenienza o la loro appartenenza.
Questi due precetti, volti a negare ogni possibile chiusura del movimento esodale del singolo o della comunità, si collegano immediatamente agli appelli positivi, relativi al riconoscimento e all’accoglienza dell’avvento dell’altro: in quanto ciascun uomo è fatto per trascendere se stesso verso il Mistero ultimo, è anche chiamato alla confessione del primato assoluto dell’Altro trascendente e sovrano, che viene a lui nei segni della creazione e nella storia della salvezza. L’appello potrebbe formularsi così: «Apriti al Mistero santo, che avvolge te e tutto ciò che esiste, ed aiuta il cercatore del Mistero che è in Te e in ogni cuore inquieto a riconoscerne i segni nella vita e nella storia!» In quest’Europa di fine millennio questo precetto evidenzia il bisogno urgente di riproporre la centralità della questione di Dio e delle cose ultime, superando l’arido scientismo e la chiusure legate alle presunzioni totalizzanti della ragione ideologica, per confessare i limiti della conoscenza e aprirsi nello stupore e nella disponibilità del cuore all’ascolto del Mistero. Ripartire da Dio è per l’Europa post-moderna e per tanti aspetti secolarizzata urgenza prioritaria per tutti! L’altro precetto collegato al riconoscimento dell’avvento nel suo realizzarsi effettivo veicola l’invito ad aprirsi al valore di ogni alterità che ci raggiunga e ci visiti come singoli e come comunità, intendendola non come concorrenza o minaccia, ma come promessa e come dono. Si tratta di superare la logica dell’affermazione orgogliosa di sé e della comunità di appartenenza mediante l’effettiva ammissione della dignità e del valore del diverso: «Rispetta l’altro nella sua diversità e sii pronto a cogliere il dono e la ricchezza che in quanto tale rappresenta per te e per la tua comunità!» Al singolo e alla comunità è domandato di rinunciare a disporre dell’altro secondo la logica esclusiva del proprio interesse, rifiutando ogni ricorso a metodi violenti in tutte le possibili forme, fisiche o psicologiche, per misurarsi sulle potenzialità positive che ogni incontro con l’altro, pur nelle oggettive difficoltà che comporta, può rappresentare. L’unità di questo precetto col precedente è colta facilmente se si è pronti a riconoscere l’alterità penultima come traccia dell’Altro ultimo e trascendente. L’accoglienza dell’una è segnale per l’accoglienza dell’Altro[20].
Il riconoscimento di Sè come bisogno e domanda aperta e l’accoglienza dell’avvento dell’altro, tanto nella forma del Mistero ultimo, quanto in quella del prossimo e del vicino e in generale di tutto ciò che può dirsi penultimo, non sono ancora sufficienti a realizzare l’esperienza della riconciliazione come dono dall’alto e sorgente di vita nuova. Perché questa si compia è necessaria la confessione dell’effettivo avvento del Dio vivo fra noi: si pone qui lo spazio della fede, con cui il cuore umano si apre al dono di Dio e si lascia plasmare da Lui. Questa esigenza in forma d’appello potrebbe esprimersi così: «Accogli il dono di Dio offerto in Gesù Cristo nell’obbedienza della fede. Non essere incredulo, ma credente e confessa il solo nome in cui è data agli uomini la riconciliazione: il Signore Gesù!» Il richiamo alla singolarità di Gesù Cristo è costitutivo della fede cristiana: senza di esso non c’è fede, né comunità della salvezza, né urgenza e passione missionaria. La modernità europea ha messo in discussione questo punto: in nome della pretesa di universalità del vero raggiunto dalla ragione adulta ed emancipata, si è contrapposta la forza incontestabile delle verità razionali (“Vernunftswahrheiten”), alla debolezza e caducità delle verità legate ai fatti o agli eventi (“Geschichtswahrheiten”). Fra queste si annoverava la verità cristiana, legata alla storia del Profeta galileo. La crisi di questo impianto veritativo, mostratasi nella violenza prodotta dalle varie ideologie, tutte fondate su pretese assolute di verità, ha fatto riscoprire il valore della singolarità del vero, di quell’“universale concretum et personale”, che la rivelazione cristiana confessa in Gesù Cristo. La verità non è qualcosa che si possieda, in una pretesa razionalistica tanto ambiziosa, quanto insufficiente e violenta: la verità è Qualcuno che ci possiede, il Dio vivente e santo che viene a visitarci nel Suo Figlio incarnato. Confessare Gesù Cristo è allora urgenza imprescindibile di chi non rinunci alla passione della verità, nonostante la crisi dei modelli veritativi della razionalità moderna: e questa confessione apparirà tanto più convincente rispetto al sospetto debolista della post-modernità, quanto più sarà resa a partire da un’esperienza vissuta di contemplazione e di sequela del Signore crocefisso e risorto. In quest’Europa di fine millennio si chiede ai cristiani di render ragione della loro speranza in modo convinto e perseverante, con dolcezza e rispetto verso tutti (cf. 1 Pt 3,15), ma anche con la convinzione dell’urgenza indilazionabile di questo compito di evangelizzazione. Quanto più i singoli credenti e le Chiese d’Europa si nutriranno dello spirito delle beatitudini, quanto più vivranno il primato della dimensione contemplativa della vita, tanto più si riconosceranno chiamati a servire i popoli del continente, segnati dalla crisi, con la testimonianza e l’annuncio del Vangelo. Questo impulso scaturente dalla fede viva e dall’amore del Cristo può essere reso nell’appello seguente, rivolto alle Chiese e ai singoli credenti: «Vivi la Tua fede in modo da irradiare la forza e la bellezza della riconciliazione donata in Cristo e da annunciarla a tempo opportuno e inopportuno come buona novella per ogni uomo e per tutto l’uomo, oltre che per l’intera comunità dei popoli e delle Chiese d’Europa!» È il forte invito che Giovanni Paolo II ha più volte rivolto a una “nuova evangelizzazione”, e che riguarda tutti i cristiani, qualunque sia la confessione o la tradizione di appartenenza.
L’incontro fra esodo e avvento, celebrato e vissuto nella fede in Gesù Cristo, è sorgente di vita nuova per i credenti e per le Chiese: questa novità di vita può essere presentata secondo quattro istanze fondamentali, che traducono nel concreto delle relazioni personali e comunitarie l’impegno al servizio della riconciliazione. In primo luogo, l’accoglienza della carità divina esige di esprimersi in un’etica della solidarietà, che riconosca i bisogni altrui, soprattutto dei più deboli e dei più poveri, come diritti su cui verificarsi e per cui impegnarsi. «Sii solidale con l’altro, riconoscendo nel suo bisogno e nella sua debolezza il suo diritto all’impegno tuo e della tua comunità civile ed ecclesiale!» In un’Europa segnata drammaticamente dalle tensioni fra etnie e nazionalismo, nel contesto della crescente globalizzazione dell’economia, col rischio connesso della riduzione dei posti di lavoro, mentre si fa strada la tendenza a vanificare le conquiste dei lavoratori e dello stato sociale in nome del primato dell’economia e del profitto, quest’appello alla solidarietà appare quanto mai urgente: senza solidarietà, professata e vissuta nel concreto, nessun cammino di riconciliazione apparirà credibile e risulterà efficace. È necessario sostenere decisamente il primato della persona sulla mera logica di mercato e sull’assolutizzazione del profitto: e questo potrà essere fatto non solo ispirandosi al progetto di Dio per un’autentica crescita umana, quale è rivelato in Gesù Cristo e proclamato dalla Chiesa, ma anche attualizzando il compito che l’Europa ha spesso svolto come custode e maestra di diritto a partire dalle sue radici cristiane, specialmente nel processo di emancipazione delle classi e dei gruppi sfruttati e dipendenti. L’etica della solidarietà andrà non di meno coltivata in ordine alla risoluzione dei conflitti locali seguiti alla caduta del muro di Berlino, particolarmente nella ex Unione Sovietica e nei Balcani: mentre occorre riconoscere la debolezza e perfino la latitanta dell’azione europea in questo campo, si deve non di meno richiamare il dovere di coscienza critica che i cristiani e le Chiese possono svolgere in vista dell’elaborazione e della realizzazione di progetti e itinerari di effettiva riconciliazione nella giustizia e nella pace.
Non sarebbe credibile questa azione ispirata alla solidarietà se i credenti in Cristo non mostrassero nei fatti la loro capacità di accoglienza reciproca e di dialogo all’interno delle Chiese e comunità ecclesiali, oltre che fra di esse e nell’ambito interreligioso. Se l’ecumenismo è compito ineludibile per i cristiani del continente che è stato culla delle divisioni, non meno urgente appare il dialogo interreligioso in un’Europa, che i fenomeni accelerati di immigrazione di questi ultimi anni hanno sempre più reso multietnica e pluralistica quanto alle fedi religiose. Si potrebbe tradurre questa urgenza nel precetto seguente: «Vivi la passione dell’unità del Corpo di Cristo, impegnandoti nella ricerca di una comunione piena con tutti i credenti in Lui, e accogli con rispetto la diversità religiosa, promuovendo il dialogo e la collaborazione con tutti i credenti in Dio, a qualunque fede appartengano!» Si può ritenere che sarà proprio il continente europeo il grande laboratorio in cui potranno essere superati gli integralismi e realizzate quelle esperienze di conoscenza reciproca, di scambio e di collaborazione nella verità e nella carità, che potranno essere offerte come modello e anticipazione su scala mondiale.
Lo spirito di solidarietà e di dialogo religioso e civile non esprimerà però compiutamente il dono della riconciliazione se non saprà contemporaneamente aprirsi alle dimensioni della mondialità: in un mondo che sempre più si presenta come “villaggio globale”, in cui i fenomeni di dipendenza economica, sociale e politica fra popoli e continenti sono sempre più marcati, non è possibile pensare che l’Europa possa sottrarsi al riconoscimento delle proprie responsabilità e dei propri compiti in vista di un nuovo e più giusto ordine economico internazionale e di un più corretto rapporto degli esseri umani con l’intero creato. In queste relazioni su scala mondiale è urgente passare «dalla conflittualità e dall’individualismo alla fraternità, cioè alla realizzazione della pacifica convivenza dei popoli», in modo particolare «debellando quelle povertà che non sono endemiche ma risultato di uno scompenso economico che produce emarginazione e miseria su tanta parte dell’umanità», non senza sottolineare «il dovere dell’assunzione di responsabilità da parte delle nazioni europee verso i paesi già territorio di conquista coloniale, ove la convivenza pacifica non trova spazio e il sottosviluppo mette a rischio la sopravvivenza delle persone»[21]. A questo impegno di ordine economico, sociale e politico si aggiunge quello nei confronti dell’ambiente, perché la sensibilità ecologica e la conseguente azione di salvaguardia del creato ispirino i comportamenti collettivi ed individuali, nella consapevolezza che la sopravvivenza equilibrata e salutare dell’ecosistema è affidata alla cura di tutti e di ciascuno e riguarda ogni persona ed ogni collettività umana. Questo insieme di urgenze potrebbe formularsi nell’appello seguente: «Abbi consapevolezza delle tue responsabilità nei confronti dell’intera famiglia umana e della grande casa che è il mondo, agendo in modo da favorire la crescita della qualità della vita di tutti nella giustizia e nella salvaguardia del creato!»
La vita nuova scaturente dal dono della riconciliazione è infine aperta al compimento delle promesse di Dio nel tempo in cui il Cristo consegnerà tutto a Dio Padre, e Dio sarà tutto in tutto (cf. 1 Cor 15,28): la tensione verso la compiuta riconciliazione escatologica esige una continua riforma delle posizioni raggiunte, un incessante bisogno di conversione e di rinnovamento per tirare sempre più nel presente degli uomini l’avvenire di Dio. Questa tensione all’“éschaton” richiede da una parte di porre gesti anticipatori, che siano carichi di valenza profetica sulla base del dono già offerto agli uomini in Cristo, e dall’altra di non considerarsi mai arrivati da parte dei singoli credenti e delle Chiese: «Non est status in via Dei: immo mora peccatum est!» (San Bernardo). La vita nuova di chi si è lasciato riconciliare con Dio trova il suo programma nelle beatitudini, che sono al tempo stesso il frutto del dono di Dio e l’esperienza esigente, che anticipa il compimento della Sua promessa. La non violenza dei pacifici è lo stile proprio di chi davanti ai conflitti crede nella possibilità impossibile di Dio e del Suo amore per gli uomini. Specialmente nel continente europeo, dove più forte appare la crisi dei grandi modelli ideologici prodotti dall’epoca moderna e dove più grande è la tentazione della rinuncia nichilista e delle evasioni deresponsabilizzanti, occorre che i cristiani e le Chiese pongano in atto gesti profetici, e siano disposti a cammini di conversione, di riforma e di servizio della carità. Si potrebbe veicolare quest’ultimo insieme di esigenze con la formulazione dell’appello seguente: «Vivi in costante conversione e riforma e sii aperto alle sorprese di Dio, avendo il coraggio di pagare il prezzo più alto perché la riconciliazione promessa prenda corpo nella vita degli uomini!».
Il “decalogo della riconciliazione” per l’Europa di fine millennio, ed in particolare per i cristiani e per le Chiese in essa operanti, risulta così tracciato secondo le grandi linee conseguenti all’approfondimento teologico della riconciliazione come frutto dell’incontro di esodo umano e avvento divino in Gesù Cristo e nella fede in Lui: richiamare questo decalogo nell’insieme delle sue formulazioni sia al tempo stesso la sfida, la preghiera e la promessa per ognuno di noi, che abbiamo creduto al vangelo della riconciliazione, dono di Dio e sorgente di vita nuova.

«Tu che credi in Cristo Gesù, singolo discepolo o Chiesa del Suo Amore, ascolta:

1. Non chiuderti in te stesso, prigioniero delle tue angosce o delle tue difese!

2. Non chiuderti nell’appartenenza rassicurante o nell’egoismo legato all’interesse del tuo gruppo!

3. Apriti al Mistero santo, che avvolge te e tutto ciò che esiste, ed aiuta il cercatore del Mistero che è in Te e in ogni cuore inquieto a riconoscerne i segni nella vita e nella storia!

4. Rispetta l’altro nella sua diversità e sii pronto a cogliere il dono e la ricchezza che in quanto tale rappresenta per te e per la tua comunità!

5. Accogli il dono di Dio offerto in Gesù Cristo nell’obbedienza della fede. Non essere incredulo, ma credente e confessa il solo nome in cui è data agli uomini la riconciliazione: il Signore Gesù!

6. Vivi la Tua fede in modo da irradiare la forza e la bellezza della riconciliazione donata in Cristo e da annunciarla a tempo opportuno e inopportuno come la buona novella per ogni uomo e per tutto l’uomo, oltre che per l’intera comunità dei popoli e delle Chiese d’Europa!

7. Sii solidale con l’altro, riconoscendo nel suo bisogno e nella sua debolezza il suo diritto all’impegno tuo e della tua comunità civile ed ecclesiale!

8. Vivi la passione dell’unità del Corpo di Cristo, impegnandoti nella ricerca di una comunione piena con tutti i credenti in Lui, e accogli con rispetto la diversità religiosa, promuovendo il dialogo e la collaborazione con tutti i credenti in Dio, a qualunque fede appartengano!

9. Abbi consapevolezza delle tue responsabilità nei confronti dell’intera famiglia umana e della grande casa che è il mondo, agendo in modo da favorire la crescita della qualità della vita di tutti nella giustizia e nella salvaguardia del creato!

10. Vivi in costante conversione e riforma e sii aperto alle sorprese di Dio, avendo il coraggio di pagare il prezzo più alto perché la riconciliazione promessa prenda corpo nella vita degli uomini!»


[1] Per le riflessioni che seguono rimando specialmente al volume primo della mia Simbolica Ecclesiale, intitolato La parola della fede, Cinisello Balsamo 1996, in particolare ca. I e II.

[2] M. Heidegger, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, Torino 19862, 377s (§ 50).

[3] Ib., 379.

[4] Agostino, Confessiones, I, 1.

[5] K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, Alba 1977, 95.

[6] Ib.

[7] K. Rahner, Uditori della parola, Torino 1967, 97.

[8] Ib., 145.

[9] Ib., 208.

[10] Ib., 153.

[11] I racconti dei Chassidim, a cura di M. Buber, Milano 1979, 647.

[12] Cf. M. Heidegger, Perché i poeti?, in Id., Sentieri interrotti, Firenze 1984, 247ss.

[13] D. Bonhoeffer, Etica, Milano 1969, 91.

[14] J.-P. Sartre, L’Essere e il Nulla (1943), tr. it. G. Del Bo, Milano 19703, 738.

[15] Per un inquadramento organico delle riflessioni qui proposte ed un maggiore approfondimento rinvio al volume settimo della mia Simbolica Ecclesiale: Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l’inizio e il compimento, Milano 19912, specie la Parte Prima, 36ss. Cf. pure B. Forte, In ascolto dell’Altro. Filosofia e rivelazione, Brescia 1995.

[16] Cf. su questi temi B. Forte, «Offenbarung» aut «re-velatio»? Dalla Scrittura alla Parola ed al Silenzio di Dio, in Archivio di Filosofia 60(1992) 389-402.

[17] K. Barth, Prefazione alla seconda edizione del Römerbrief, in Le origini della teologia dialettica, a cura di J. Moltmann, Brescia 1976, 145.

[18] K. Barth, L’Epistola ai Romani, a cura di G. Miegge, Milano 1974, 17.

[19] Pax Christi Italia, Contributo in vista della Seconda Assemblea Ecumenica Europea (Graz, giugno 1997), testo policopiato.

[20] In questa luce si comprende come nessuna etica sia possibile senza un riconoscimento di trascendenza: dove non ci si apre all’alterità e si corrisponde ad essa nella responsabilità, non c’è che autoaffermazione inospitale e perciò volontà di potenza e sopraffazione dell’altro. È questa in specie anche la condizione di possibilità della cosiddetta “etica laica”, che in tanto può fondarsi in quanto viva di un movimento di trascendenza verso gli altri e di corrispondenza ai loro bisogni: il credente riconoscerà e rispetterà questa possibilità, senza peraltro mai rinunciare a riconoscervi ed a proporre i segnali e le urgenze di ulteriore trascendenza.

[21] Ib.

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