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Le regioni dell’anima. Il rapporto tra fede e ragione a partire dal pensiero di G. Bontadini
The relationship between faith and reason is a central issue of Christian thought. From a philosophic perspective, can we adopt a fideistic position as a start point for our arguments? To what extent can faith accept judgment of reason? Or has reason exclusively to serve Revelation?
The tradition of Christian thought repeteadly focused on this question and attempted to reconcile the autonomy of rational speculation with the fidelity at the Doctrine. Within this tradition, Sergej Averincev emerges according and thanks to the strength of his metaphors and images. The Russian writer symbolize the relation between faith and reason like a dialogue between Athens and Jerusalem. The former is the icon of philosophical thought, the latter becomes the symbol of the theological one.
Averincev is strongly convinced that this dialogue may be fruitful only if Athens humbly acknowledges that Jerusalem is the source of truth. Otherwise, philosophy is condemned to profess a sterile arrogance. From this perspective, Averincev supports firmly the supremacy of faith upon reason.
Is this a satisfying solution? If we look at this position with the eyes of logos, we experience a feeling of unease; a fideistic perspective appears untenable with regard to its own demand of truth. What if not reason can prove the reasonableness of faith?
A possible solution seems to require the establishment of a “positive loop” of faith and reason. The features of such a relation should be both autonomy and complementarity: there should be no servant and no masternot, no positions either excluding each other and fighting for supremacy.Bboth faith and reason are the founding paradigm in their own different fields: the latter in the field of epistemic knowledge, the former for the field of wish/desire. Two paradigms helping each other to enlarge and to strengthen their respective domains.
What is the meaning of such a mutual strengthening of faith and reason may be clarified by comparing Avernicev’s proposal and the thought of Gustavo Bontadini – the main representative author of the so called neo-classic metaphysics in Italy – who thinks this relation as a kind of counterpoint, according to which the melody of faith accepts the judgment of reason in the cognitive domain.
Permettetemi una piccola confessione (siamo tra amici e so di potermela permettere): prima di ricevere l’invito a questa due giorni dedicata a Sergej Averincev non avevo avuto modo di confrontarmi direttamente con l’opera di quest’autore. L’occasione si è rivelata quanto mai preziosa, regalandomi la piacevole sorpresa di un pensiero ricco di suggestioni e di spunti di riflessioni. Alcune di queste le vorrei oggi condividere con voi. Premetto fin d’ora il carattere non certo specialistico del mio intervento, non ne avrei la competenza. Non intendo cioè affrontare criticamente l’opera di Averincev quanto piuttosto provare a sviluppare una riflessione ispirata dalla lettura di alcune pagine del pensatore russo. Non un discorso su Sergej Averincev, dunque, bensì un dialogo ideale con Sergej Averincev (e col mondo spirituale di cui egli è espressione).
Personalmente mi sono dedicato a lungo allo studio della così detta metafisica neoclassica, erede di quella tradizione di pensiero che affonda le sue radici nell’Atene del sesto secolo avanti Cristo. Un pensiero, quello neoclassico, caratterizzato da un approccio speculativo estremamente razionale, che ha nel logos il suo stile intellettuale e nell’epistéme il proprio fine agognato. Un pensiero, tuttavia, animato dal desiderio di riscattare con gli strumenti della ragione una fede che ha altrove il proprio luogo d’origine: in Gerusalemme – per restare alle suggestioni del testo di Averincev – ovvero nell’ascolto della buona novella.
Atene e Gerusalemme simboleggiano pertanto in modo efficace quanto suggestivo il rapporto tra fede e ragione, tra il senso ultimo dell’esistenza e la necessità di una sua intelligibilità razionale. Gustavo Bontadini, uno degli autori più rappresentativi della riflessione neoclassica, amava parlare di fede e ragione come di due “luoghi dell’anima”, due istanze che abitano l’esperienza umana e che richiedono una sintesi capace ad un tempo di essere rispettosa delle differenza ma altresì arricchente per entrambe. Con compiaciuta sorpresa mi sono dunque ritrovato nelle pagine di Averincev quando questi ci parla di Atene e di Gerusalemme come di “due principi creativi”. In quelle pagine ho scorto infatti la preziosa tensione tra l’ascolto fiducioso della rivelazione e l’esigenza di una sua traduzione razionale.
Le assonanze possono però nascondere anche modulazioni diverse di uno stesso tema e, talvolta, esse possono declinare in modo sensibilmente diverso un’unica idea di fondo. Proprio su questo vorrei ora provare a svolgere un breve ragionamento.
Il nucleo centrale di questo mio contributo credo sia ormai palese: esso è rappresentato dalla dialettica fede/ragione, dalla necessità di una loro integrazione e dalle difficoltà connesse al loro dialogo reciproco. Entrambe anelano infatti la stessa meta: il possesso sicuro della verità. Entrambe ritengono di possedere le chiavi giuste per raggiungerla e si contendono vicendevolmente la primazia nell’ordine conoscitivo. Rispetto a tale dialettica la posizione di Averincev è abbastanza chiara: egli è convinto del ruolo ancillare della filosofia, incapace da sola di giungere al fondo del reale in quanto viziata da un astrattismo che tende ad isolarla dalla concretezza della vita. Queste considerazioni lo spingono a denunciare i rischi cui inevitabilmente si espone Atene nel momento in cui non sa (o non può) porsi in ascolto dell’annuncio salvifico di Gerusalemme. Rischi resi concreti nello stile intellettuale inaugurato dalla riflessione greca ed ereditato dal pensiero moderno. Per primi i filosofi greci «estrassero dal flusso vitale dei fenomeni l’ “essenza” stabile e uguale a se stessa […] e cominciarono a manipolarla intellettualmente». Nel far questo essi disincarnarono il pensiero dal suo legame con la vita, trasformandolo «per la prima volta da pensiero-nel-mondo a pensiero-sul-mondo». L’autonomia e l’universalità rivendicata come titolo di merito dal pensiero filosofico divennero così la cifra di un approccio al reale perennemente tentato dall’arroganza dell’autosufficienza, sordo a quelle verità che il logo, da solo, non è in grado di raggiungere. Averincev sembra dunque proporre l’incontro tra Atene e Gerusalemme nella forma di un dialogo nel quale la ragione si dimostra capace di rinunciare alla sua pretesa autosufficienza e di mettersi in ascolto della parola rivelata, accogliendo così la verità di fede quale premessa irrinunciabile ad una efficace ricerca speculativa.
Rispetto a questo approccio in cui la conoscenza di fede ordina e guida i passi della ragione, l’esempio bontadinino si muove in una direzione per certi aspetti antitetica. Il maestro della Cattolica si è sempre dimostrato insoddisfatto rispetto alla soluzione fideista (da lui abbracciata negli anni giovanili). Non la critica a livello di scelta esistenziale, né esclude ch’essa possa rivelarsi una preziosa chance per l’uomo. Bontadini nega piuttosto che un approccio filosofico marcatamente fideista possa fornire una base solida alla costruzione di una metafisica razionale (obiettivo al quale egli dedicò la vita). A suo avviso bisognerebbe avere maggior fiducia nella ragione: se ciò a cui si mira è la verità (intesa come verità stabile, come epistéme) non si può che confidare nella forza del logos ed accettare ch’esso assurga a giudice anche della ragionevolezza della fede.
Utile quindi nel corso di questa nostra due giorni di studio, il confronto con un autore che, pur condividendo con Averincev un comune orizzonte di fede, sembra gestire la dialettica fede/ragione in modo sensibilmente diverso. Cercherò di farlo in modo, per quanto possibile, schematico.
Conoscere e volere, verità e fede.
Alcuni rilievi preliminari.
Chiedere alla riflessione filosofica di sciogliere le aporie legate al rapporto tra fede e ragione significa, in fondo, riconoscerle un “primato conoscitivo”. Come a dire: se ciò che andiamo cercando è una verità stabile, capace di superare le mere opzioni soggettive (ed in grado di dar conto della propria validità) è al logos che dobbiamo rivolgerci. Il filosofare – e segnatamente la riflessione metafisica – tende naturalmente alla verità stabile (all’epistéme) come suo fine agognato e la ragione è lo strumento attraverso cui il pensiero cerca di appagare tale desiderio di verità. Come esseri razionali, come filosofi, ovvero come amanti di un sapere capace di dimostrare la veridicità delle proprie affermazioni, noi aspiriamo infatti ad una tale verità incontrovertibile.
In quanto persone coinvolte nel flusso della vita, però, noi non desideriamo una verità qualsiasi: ciò cui aspiriamo realmente è una verità in grado di dar senso alla nostra esperienza, una verità capace di riconoscere la razionalità della vita stessa. In questo nostro indagare noi scommettiamo sull’intelligibilità dell’esperienza, sul suo valore e sulla possibilità di un suo fondamento razionale. Se siamo onesti non possiamo non riconoscere come noi tutti – con le forme, i modi, le certezze e le debolezze proprie di ciascuno – quando ci apprestiamo ad affrontare il nodo del rapporto tra ragione e fede non lo facciamo certo da spettatori disinteressati, bensì come parti in causa. Questo problema ci interroga direttamente e, per così dire, “integralmente”, in quanto una parte di noi ha già deciso “la sua verità” ed ora chiede conforto alla ragione circa la ragionevolezza di questa sua scelta di campo. Siamo, per così dire, già “imbarcati” prima ancora di cominciare a riflettere filosoficamente. La nostra opzione (scommessa!) sull’esito sperato fa parte del nostro stesso cominciamento.
Come uomini e donne di fede, infine, noi crediamo nella possibilità di un fondamento trascendente capace di salvaguardare e difendere il senso ed il valore dell’esperienza umana. Lo facciamo in quanto abbiamo avuto notizia di una simile possibilità grazie all’annuncio offertoci da testimoni attendibili; grazie all’esempio di una comunità che ci ha accolti nel seno di una tradizione autorevole; grazie all’insegnamento di maestri che si sono guadagnati la nostra fiducia ed ai quali ci siamo affidati. Lo facciamo, anche, grazie ai frutti di quella stessa speranza che, sotto diverse forme e modalità d’espressione, abbiamo voluto/saputo riconoscere nel corso della nostra vita.
La complessità dell’esperienza umana si articola quindi su di una pluralità di dimensioni, distinte tra loro ma, nel contempo, profondamente interconnesse. L’umano è questa complessità originaria, fatta di ragione, di desiderio, di fede.
Provando a discriminare le coordinate essenziali di tale complessità, penso si possa iniziale distinguendo le due principali dimensioni su cui si articola l’esperienza umana. Da un lato il conoscere, quale espressione consapevole del logos (ragione); dall’altra la volontà, forza motrice dell’azione pratica (desiderio). Queste due dimensioni si caratterizzano per una loro propria “grammatica”, oltre che per una specifica “tensione intenzionale”. Sarà quindi nostra cura provare a indicarne gli aspetti peculiari. Successivamente, cercheremo di metterne in luce i punti di contatto e le reciproche connessioni.
In prima approssimazione possiamo così definire i due pilastri essenziali attorno ai quali si costruisce la complessità dell’esperienza umana:
Il conoscere in primo luogo. Esso si caratterizza per un approccio teoretico/contemplativo alla realtà. Il conoscere vive, per così dire, di evidenze. Il suo regno è quello dell’incontrovertibilità, dell’evidenza, della trasparenza dell’essere.
Il conoscere aspira alla verità delle cose più che ad una loro possibile fruizione. Il suo arco intenzionale termina infatti nella realtà in quanto conosciuta, ovvero nel possesso concettuale (ideale) della realtà stessa. Il conoscere, inoltre, si caratterizza per una propria tensione interna: formalmente esso si costituisce come sapere della totalità, nel senso che esso si determina come il luogo (l’orizzonte) entro il quale l’Intero si rivela. Tale darsi dell’essere al/nel conoscere, tuttavia, è sempre un darsi determinato, parziale. Si conosce l’ente – al più gli enti – mai l’essere nella totalità concreta delle sue determinazioni. Di qui l’incessante superamento del dato immediato da parte del conoscere, la sua insoddisfazione, la continua tensione verso un ampliamento della sua conoscenza dell’Intero. La coscienza, in questo modo, si ritrova avvinta in una contraddizione insanabile: formalmente essa è apertura all’Intero (identità di essere e pensiero); di fatto, essa ha invece a che fare solo con la parte, col frammento o, la più, con una gran massa di frammenti. La coscienza è quindi spinta ad un’incessante superamento di tale posizione di steresi, mossa dall’esigenza di ritrovare una propria equazione con l’Intero. Questa la radice del dinamismo tipico del conoscere.
La volontà (desiderio). Essa si contraddistingue, rispetto al conoscere, in virtù del suo strutturale sporgersi oltre il piano dell’immediatezza. Il desiderosi caratterizza, infatti, per il suo tendere verso ciò che non si offre nell’immediato ma che, al limite, in esso si lascia solo annunciare.
Notiamo fin d’ora che – contrariamene a quanto avviene per il conoscere – quando si desidera qualcosa la coscienza ha a che fare in modo immediato col significato della cosa e solo tramite esso (quindi mediatamente) con la realtà. La volontà, dunque, sceglie per l’esistenza reale (in re) di ciò cui il significato rimanda. Rispetto alla sfera del conoscere, dove il sapere è visto come il fine cui tendere, nel caso del desiderio il sapere rappresenta pertanto il mezzo (in quanto anticipazione ideale) attraverso il quale “agganciare” praticamente la realtà desiderata.
In ragione di questo sporgersi della volontà oltre l’orizzonte dell’evidenza e dell’immediatezza – e dunque dell’incontrovertibilità – essa è necessariamente esposta al rischio dell’errore. Quante volte, infatti, il desiderio deve fare i conti con la frustrazione!
Su questa struttura bipolare si radica la distinzione tra verità e fede. Proviamo ad offrirne una prima, schematica, definizione.
La verità è il fine cui tende la ragione epistemica. Qui il termine verità viene assunto in senso forte, ovvero non soltanto come dizione del vero, ma come sapere veritativo capace di dimostrarsi tale in modo incontrovertibile. In questa specifica accezione – tipica dell’indagine metafisica – la verità si configura come un sapere incontrovertibile dell’incontrovertibile. Un sapere, quindi, che non può essere negato in virtù dell’immediatezza e dell’incontrovertibilità con la quale si offre al pensiero. Tre le forme che un tale sapere può assumere:
a) come evidenza fenomenologica: ovvero come presentarsi di ciò che è, nei limiti e nelle modalità in cui questo si offre (entità logica, fattuale, mentale). Siamo qui sul piano della datità immediata di coscienza.
b) come evidenza logica: ovvero come immediatezza logica. Esempio principe di tale tipo di evidenza è il principio di non contraddizione. Altri esempi sono le verità analitiche (quali “il tutto è maggiore delle parti”) le quali altro non sono se non individuazioni del principio di non contraddizione.
c) come mediazione necessaria: ovvero come quel contenuto di coscienza che appare incontrovertibile – e dunque evidente – al termine di un discorso dimostrativo necessario (verità inferenziale). Si tratta quindi di un’immediatezza per aliud.
L’evidenza e l’incontraddittorietà, dunque, rappresentano i “parametri” in base ai quali è possibile garantire la verità di ogni singolo passo condotto lungo il cammino speculativo.
La fede (o certezza) rappresenta invece la convinzione pratica nella veridicità di un determinato stato di cose. Essa, agli occhi della ragione speculativa, appare come un sapere trattato in actu exercito come incontrovertibile, ma che, in sé, non è in grado di mostrare la propria incontrovertibilità, restando in tal modo speculativamente controvertibile (e dunque suscettibile di errore).
In altre parole la fede “tiene per vero” ciò che, di per sé, non è capace di dimostrarsi tale. Essa rappresenta dunque un sapere di fatto incontrovertibile di ciò che per sé si mostra come logicamente controvertibile.
Si faccia attenzione: qui non stiamo ancora parlando specificatamente di fede religiosa (la quale rappresenta tuttavia un tipo particolare di certezza), ma in generale di un contenuto di coscienza vissuto praticamente come vero (in virtù di ragioni non riconducibili strettamente alla ragione speculativa) benché incapace, per sé, di dimostrare razionalmente la propria incontrovertibilità. Così intesa, la fede si rivela quindi come la situazione tipica della nostra esperienza quotidiana. Noi viviamo comunemente nella fede e solo occasionalmente nella verità.
La fede è dunque quell’atteggiamento pratico in base al quale si acconsente a qualcosa (reputandolo conforme al vero) senza che se ne abbia evidenza razionale. La sua verosimiglianza – quanto alla stabilità ed all’incontrovertibilità (soggettiva) con la quale viene vissuta – poggia non su un “vedere”, bensì su un “volere”: (ci) si decide per la verità di ciò in cui si crede, e lo si fa sulla base di una serie di ragioni diverse dall’evidenza epistemica. In questo senso la fede anticipa l’evidenza del conoscere, scommettendo in favore della verità creduta.
Sulla circolarità di fede e ragione
Torniamo ora al rapporto tra il volere e conoscere e soffermiamoci a guardare la loro reciproca relazione. Quando il desiderio raggiunge il suo bene voluto, non è solo il volere ad essere soddisfatto. Lo è pure il conoscere. Infatti col raggiungimento dell’oggetto desiderato il conoscere vede dischiudersi una determinazione dell’essere cui, sulla base della sola evidenza immediata (o mediata in modo necessario), non sarebbe mai giunto.
Alla fine dell’arco del desiderare (se quest’ultimo giunge al possesso reale del bene voluto) si assiste infatti ad un ampliamento d’orizzonte dell’attualità presente. Da qui emerge la connessione (circolarità) tra sapere e volere; tra la dimensione contemplativa del conoscere e la dinamicità propria dell’azione.
Il sapere si dimostra interessato al dinamismo del desiderio ed alla spregiudicatezza dell’azione, in quanto quest’ultima è in grado, di fatto, di ampliare l’orizzonte dell’apparire, portando all’evidenza determinazioni dell’essere sempre nuove. Di più: la fede è lo strumento soggettivamente più efficace in vista di un ampliamento progressivo della nostra conoscenza epistemica sull’essere.
La verità, dunque, non può fare a meno della fede: non solo perché quest’ultima rappresenta una dimensione originaria dell’umano, ma anche (e direi soprattutto) perché la fede si rivela strumento necessario al progressivo dischiudersi dell’essere al conoscere. Senza di essa il logos si vedrebbe limitato entro poche (benché preziose) verità prime e schiacciato sull’evidenza del mero dato immediato, senza possibilità di ampliare il suo sguardo sull’Intero.
D’altro canto, neppure l’azione è estranea al conoscere. Al contrario, essa si radica sulle conoscenze già acquisite dalla ragione, utilizzandone i concetti come mezzi per l’ottenimento dei suoi fini. L’azione, inoltre, presuppone come sua condizione essenziale, la consapevolezza della possibilità reale del termine cui tende; dipende quindi dalla razionalità del logos quanto alla ragionevolezza del proprio desiderio (desiderare ciò che si sa impossibile significa infatti cadere nella follia).
Cominciano così a delinearsi i tratti della circolarità originaria tra fede e ragione: da un lato sappiamo infatti che la verità vive (anche) del suo rapporto strutturale con la fede, ovvero che essa non può fare a meno di un uso consapevole della certezza quale possibilità pratica al dischiudersi di determinazioni sempre nuove dell’essere (inevitabilità della fede). Dall’altro, abbiamo messo in luce come la fede si regga sulla ragionevolezza e sull’incontraddittorietà dei propri desiderata, sulla loro vero-simiglianza (razionalità della fede).
L’intimità di fede e ragione non deve però far scordare ciò che le distingue: la ragione speculativa si sostanzia della sicurezza e dell’indubitabilità dell’epistéme. La fede, al contrario (benché cerchi di garantirsi una propria solidità razionale) non può mai divenire altro da sé, senza con questo negarsi (facendosi, essa stessa, verità epistemica). La fede non può infatti liberarsi dal rischio dell’errore, al quale è strutturalmente esposta, se non al prezzo di cadere nella gnosi.
La fede, benché capace di offrire al conoscere delle chances che altrimenti gli sarebbero precluse, opera propriamente su una dimensione diversa rispetto a quella del sapere speculativo. Essa ha infatti a che fare con la dimensione pratica dell’esperienza umana e può quindi costituirsi come certezza, di fatto, indubitabile a dispetto (o al di là) delle possibili riserve sollevate sul piano prettamente speculativo. La fede gode cioè di ragioni (e per i più fortunati di evidenze) le quali – pur non riconducibili a formalità dimostrativa incontrovertibile – sono sufficienti a “cementare” una certezza esistenziale capace di resistere alle insidie del dubbio. Ciò non di meno la fede pur non essendo necessariamente abitata dal dubbio (come invece vorrebbe Emanuele Severino) è strutturalmente esposta al rischio dell’errore. Ciò nonostante essa vive tale rischio non come un freno, bensì come una sfida nella quale mettersi in gioco, convinta della bontà della propria scelta.
Da quanto detto fino ad ora emerge come fede e ragione “funzionino” e siano reciprocamente fruttuose solo quando operano all’interno della suddetta circolarità e nel rispetto delle rispettive peculiarità. Allora esse si alimentano e sorreggono l’un l’altra. Altrimenti?
La ragione isolata porta ad un intellettualismo sradicato dalla vita, ad una chiusura nella mera formalità logica, sorda agli stimoli ed agli appelli dell’esperienza quotidiana. In questo Averincev coglie senza dubbio nel segno. La posizione di Severino può apparire in tal senso paradigmatica: stando al dettato del suo magistero, qualora le certezze dell’esperienza concreta dovessero opporsi alla verità del logos… tanto peggio per la vita! Certo l’inconveniente potrà risultare spiacevole, ma sempre e soltanto di mero inconveniente si tratterebbe.
D’altro canto la sola fede, la quale rifiutasse la “protezione” della ragione ritenendola eccessivamente rigida e formalistica, cadrebbe inevitabilmente in un fideismo incapace di dar ragione delle proprie convinzioni. Una fede muta rispetto alla possibilità di giustificare la proprie certezze, di argomentare ragionevolmente le proprie speranze, si rivelerebbe inoltre disarmata nel confronto le fedi altrui – religiose o meno che siano – divenendo in tal modo facile preda dell’irrazionalità e del fanatismo.
Passando poi ad analizzare il particolare rapporto che lega la fede religiosa al logos epistemico, si nota come anche in questa specifica configurazione del rapporto tra verità e certezza la “relazione nella diversità” continui a rappresentare la cifra distintiva della buona reciprocità. La fede chiede infatti alla ragione garanzie di senso quanto alla possibilità (non-contraddittorietà) della rivelazione. Se possibile, la fede chiede alla ragione non solo una “garanzia negativa”, ovvero l’incontraddittorietà dell’esistenza di Dio, ma una positiva affermazione circa la necessità di un fondamento trascendente. In quest’affermazione (per quanto astratta, e povera di determinazioni concrete) la fede trova infatti conforto e conferma alla sua decisione di accogliere l’annuncio della rivelazione. La fede ha quindi bisogno (anche) di una metafisica capace di aprire, per quanto possibile, lo spazio di senso entro il quale può venir vissuta (ragionevolmente) la fede religiosa.
Considerazioni sul conflitto tra fides et ratio
Cosa fare quando fede e ragione si trovano in conflitto? Come sanare l’eventuale contrapposizione tra verità di fede e verità di ragione? Benché la due domande appaiano simili, siamo in realtà di fronte a problemi che vanno affrontati secondo prospettive diverse.
Proviamo a vedere più da vicino la prima questione: cosa succede quando fede e ragione confliggono? È opportuno aggrapparsi con fiducia alle convinzioni di fede, oppure bisogna corrispondere con coraggio al dettato di un freddo razionalismo? A mio avviso, interrogarsi sul problema in questi termini significa affrontare una questione mal posta: non esiste, infatti, una ragione in generale cui si oppone una fede in generale. Non siamo cioè costretti ad una scelta netta tra due atteggiamenti antitetici. In realtà ciò che accade è, più banalmente, il conflitto tra alcune determinate convinzioni di fede cui si contrappongono alcune obiezioni razionali. In questi termini, appare evidente come il conflitto vada sanato – caso per caso – attraverso il riconoscimento delle rispettive prerogative e dei rispettivi “limiti di campo”.
Qualora l’oggetto del contendere riguardasse propriamente la sfera della fede, oggetto sul quale la ragione epistemica non è in grado di pronunciarsi incontrovertibilmente, è chiaro che il conflitto potrebbe derivare da un’immotivata ingerenza della ragione oltre i confini della sua giurisdizione. Di converso, la fede entra in conflitto con la ragione ogni qual volta pretende di porre sulle proprie certezze il sigillo della verità incontrovertibile. Questo avviene quando la fede non si accontenta di vivere la propria certezza con speranza e convinzione, ma la vorrebbe anche al sicuro dall’errore e solida al punto da poter negare (incontrovertibilmente) ogni possibile obiezione.
Per quanto concerne, poi, la contrapposizione tra verità di fede e verità di ragione, essa si fonda su un uso improprio del termine “verità” quand’esso viene riferito alle convinzioni di fede.
La verità, in termini rigorosi (ovvero intesa come epistéme), si predica infatti della sola ragione, in quanto affermazione incontrovertibile dell’incontrovertibile. Nel caso della fede, invece, il termine “verità” viene impiegato in modo analogico e serve a sottolineare la solidità soggettiva del contenuto di fede: la “verità” della fede fa infatti riferimento all’incontrovertibilità con la quale si vive (praticamente) la propria certezza. Questo, tuttavia, non può far dimenticare la controvertibilità logica dell’oggetto creduto (la sua incapacità di negare, incontrovertibilmente, la possibilità della propria tesi contraddittoria e, quindi, di mettersi al sicuro dal rischio dell’errore).
Se si parla di verità in senso forte ci si pone necessariamente sul piano del logos e non si può che riconoscere il primato della ragione sul suo terreno proprio. Una “verità di fede”, a rigore, è un ossimoro, sarebbe come affermare un’incontrovertibilità controvertibile.
“Verità di fede” rappresenta dunque un’espressione metaforica, capace di svelare il suo “contenuto di verità” solo una volta collocata sul terreno che le è proprio, ovvero sul piano della fede vissuta (e non del conoscere inteso come sapere stabile). Tale espressione indicherà allora quel contenuto di coscienza esperito esistenzialmente con la solidità e la concretezza di una verità epistemica. E questo sulla base di ragioni non riconducibili strettamente alla sfera del logos.
In quest’ottica si chiarisce anche il riferimento alla “retta ragione”, spesso indicata come doveroso habitus intellettuale, necessario per conciliare i dettami del logos con gli insegnamenti della rivelazione.
In realtà la ragione, di per sé, non può essere che retta. Definirla tale è ridondante… a meno che, di nuovo, non si usi tale espressione in senso metaforico, per indicare cioè quella disponibilità della ragione a lasciarsi guidare dalla fede qualora da sola non fosse in grado di giungere ad un possesso sicuro della verità. Una ragione che, pur senza abdicare a se stessa, sappia dunque riconoscere i propri limiti. Una ragione che, anche qualora dovesse trovarsi ad affrontare un conflitto pratico tra ciò che crede di sapere razionalmente e ciò che la fede le insegna, sia sempre disposta ad interrogarsi con umiltà sulla solidità delle proprie costruzioni logiche, consapevole dei suoi limiti e della facilità di confondere l’illusione con la verità.
È chiaro però che, di fronte all’incontrovertibile, la fede non può che piegarsi (i beati non credono in Dio, conoscono Dio); ma qualora non vi fosse una simile evidenza, la “retta ragione” è quella che sa prestare credito alla fede. Non certo per pensare di meno, ma per pensare di più, sciogliendo i nodi dell’apparente contraddizione tra ciò che la ragione sembra implicare e ciò che la fede invita a credere.
Dire il vero e conoscere la verità.
Ritengo utile introdurre ancora una distinzione che reputo strategica al fine di una corretta impostazione del rapporto tra fede e ragione. Essa riguarda la distinzione tra verità saputa (ovvero quel sapere capace di dar ragione di sé, la verità come sapere incontrovertibile dell’incontrovertibile) e “verità” creduta o voluta (ovvero la certezza intesa come sapere soggettivamente incontrovertibile di ciò che, alla luce della sola ragione, è incapace di dar prova della propria incontrovertibilità e che deve quindi la sua saldezza ad un atto di volontà). È infatti possibile dire materialmente il vero senza saperlo formalmente come tale. È cioè possibile dire il vero (quanto al contenuto materiale del giudizio) indipendentemente dalla capacità di possederlo (dimostrandolo) secondo la formalità epistemica della ragione speculativa.
Bisogna quindi distinguere la verità logica, espressa nel giudizio, ovvero la conoscenza incontrovertibile del vero espressa dal logos (la verità in senso proprio, epistemico), da quella che potremo chiamare la verità ontologica, intesa come la verità dell’essere (il suo essere così e non altrimenti) a prescindere dal suo darsi come contenuto incontrovertibile di coscienza.
Diverso, infatti, è dire una cosa vera senza saperla (o poterla) dimostrare – e, quindi, senza poter dimostrare di dire il vero – dal poter affermare qualcosa, mostrando nel contempo, l’impossibilità della sua negazione. Nel primo caso la formalità del discorso non riesce a tenersi in pari col suo contenuto; nel secondo si assiste alla perfetta equazione tra forma (l’incontrovertibilità del logo) e contenuto (l’innegabilità del vero).
La fede crede dunque nella verità delle proprie certezze; crede cioè di affermare il vero, di esprimere correttamente la realtà dell’essere (vero ontologico). Nel far questo, però, non può pretendere che la sua fede esprima, formalmente, una verità in senso rigoroso (ovvero una verità epistemica), altrimenti non sarebbe più espressione di fede ma gnosi.
La fede ha certamente un contenuto di sapere, in quanto si riferisce ad uno stato di cose sulla base di determinate ragioni. Essa, però, non rappresenta propriamente un sapere in senso forte (rigoroso), in quanto non è in grado di eliminare la possibilità dell’errore attraverso la negazione della propria contraddittoria. Questo margine d’errore, questa distanza che separa la conoscenza di fede dal sapere epistemico dovrebbe quindi esprimersi nelle forme di una “verità indebolita”, dove il termine “verità” è utilizzato in senso analogico per sottolineare la solidità pratica della convinzione (l’indubitabilità soggettiva) e la “debolezza” – ben lungi dal cedere a mode deboliste – sta ad indicare la necessaria consapevolezza della non incontrovertibilità della fede stessa. Di qui ne consegue anche la consapevolezza dello iato che inevitabilmente separa la fragilità della fede dal possesso esaustivo della verità.
Questo deve renderci avvertiti rispetto alla tentazione di un uso “arrogante” del termine verità quando riferito ai contenuti di fede. Isolare la fede dal rischio cui è costitutivamente esposta, pretendere di esaurire il mistero della trascendenza entro i confini di una determinata espressione di fede (per quanto autorevole) rappresenta una tentazione cui l’uomo fatica a resistere.
All’uomo di fede, troppo spesso, non basta la speranza nella verità. La certezza con la quale aderisce alla rivelazione sembra una forma troppo debole rispetto alla grandezza dell’annuncio. Nasce quindi spontaneo il desiderio di far corrispondere alla maestà del vero creduto (sul quale, non a caso, viene costruita un’intera esistenza personale) la solidità della verità epistemica. In questo modo, nel suo essere attivo testimone della rivelazione, il credente è tentato di porsi nell’atteggiamento di colui che si fa portavoce di una verità innegabile – al cui cospetto chiunque è tenuto a piegarsi – piuttosto che nell’atteggiamento di colui che annuncia con l’esempio e la testimonianza la ragionevolezza della propria speranza.
Nel primo caso, sia detto per inciso, il dialogo con chi non si riconosce in quella stessa fede risulta estremamente difficile. L’uomo infatti si piega (e neppure sempre) solo innanzi alla verità innegabile, mosso dalla ragione, oppure di fronte alla violenza dispotica, mosso dalla paura.
Nel secondo caso, invece, il credente si apre al dialogo intersoggettivo sulla base di una forte motivazione interiore, ma anche con la consapevolezza del rischio che ogni fede porta con sé. In questo caso il credente si dispone in un atteggiamento di apertura rispetto alle (possibili) buone ragioni dell’altro, anche quando queste fossero critiche. Nel contempo, però, egli è capace a sua volta di dar voce alle proprie convinzioni sorrette da buone ragioni, di evidenze (per quanto sui generis), di fiducia.
Concludendo
Il primo punto mi sembra chiaro: l’invito che queste mie riflessioni – sulla scorta dell’esempio bontadiniano – vorrebbero suggerire è quello di un uso molto prudente della parola “verità”. Pochissime proposizioni (spesso povere ed astratte, per quanto fondamentali) possono fregiarsi di un titolo simile. Di qui l’opportunità di maturare un certo pudore per la verità. Essa richiede infatti di essere rispettata, evitando di voler affermare come (formalmente) vero ciò che non siamo in grado di possedere in modo incontrovertibile.
La verità possiede tuttavia una grande potenzialità liberante (e non certo violenta, come vorrebbe parte della cultura contemporanea): la verità libera infatti l’uomo dalla contraddizione, rende sicuro il suo conoscere e retto il suo agire. Bisogna quindi avere anche il coraggio del vero, ovvero la fiduciosa consapevolezza che esso rappresenta un oggetto possibile per l’intelligenza.
Pudore per la verità significa inoltre onorarne il valore anche quando non siamo in grado di raggiungerla appieno. Significa avere di mira la verità anche quando il suo guadagno risulta difficile. Come? Chiedendo sempre ragione delle proprie affermazioni, mettendole alla prova, cercando di saggiare la loro resistenza dinnanzi alle opinioni contrarie.
In questo senso, rispettare la verità non significa certamente dover rinunciare alle buone ragioni che sorreggono le nostre convinzioni ma, semplicemente, mantenere viva in noi la consapevolezza che ciò che affermiamo (quasi sempre) non è una verità epistemica. Se vogliamo essa è, al più, una “verità umana”, limitata e contingente.
Rispettare la verità significa, infine, cercare di dar vita ad un sapere vero-simile anche quando, come nel caso dell’etica, saremo chiamati ad interrogarci su fatti che non hanno carattere di necessità. Fatti sui quali il giudizio non riesce a costituirsi come espressione di un sapere incontrovertibile. Anche in questi casi, infatti, interrogheremo l’esperienza sapendo che non tutte le opinioni sono equivalenti (contro il relativismo) e cercando di discriminare, alla luce degli insegnamenti del logos, le ragioni che si riveleranno migliori delle altre (maggiormente simili al vero quanto a stabilità e forza).
Concludendo, non credo che si debba restare all’interno del conflitto tra il credo ut intelligam e l’intelligo ut credam, bensì occorre mettere questi due atteggiamenti in circolo: devo credere per cercare la verità (per conoscere). Se il mio filosofare non fosse mosso dall’interesse per una data verità, se non avessi fiducia nella sua possibilità, volgerei infatti altrove le mie energie. Del resto, come ricorda l’adagio, nessuno è più cieco di chi non vuol vedere (e ciò vale per tanta parte dell’antimetafisica contemporanea). Dall’altro lato, per credere consapevolmente e ragionevolmente devo conoscere, devo cioè provare la razionalità della mia fede. Questo è un compito non banale; questa la sfida a cui il dialogo tra Atene e Gerusalemme ci invita.
S. AVERINCEV, Atene e Gerusalemme. Contrapposizione e incontro di due principi creativi (1971), Donzelli Editore, Roma, 1999.
Ibidem.
In questa sua solidità, in questa sua capacità di “stare” (stéme) e di imporsi “sulle” (epí) proprie possibili negazioni, risiede il senso originario della verità come epistéme.
Mi rendo conto del tratto brachilogico di questi passaggi. Una loro esaustiva determinazione costringerebbe però a superare i limiti imposti a queste note. Per una loro trattazione più articolata si rimanda a G. BONTADINI, Saggio per una metafisica dell’esperienza, Vita e pensiero, Milano, 1995; IDEM, Conversazioni di Metafisica, Vita e Pensiero, Milano, 1995; P. GREGORETTI, Sul rapporto tra filosofia e religione, Edizioni università Trieste, 2000; IDEM, La religione nell’incontro di ragione e fede, Aa.Vv., La questione di Dio oggi, Piemme, Casale Monferrato 1989, pp. 61-74; E. SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano, 1981; IDEM, Studi di filosofia della prassi, Adelphi, Milano, 1984; C. VIGNA, Ragione e religione, Celuc, Milano, 1971; IDEM, Il frammento e l’intero, Vita e Pensiero, Milano, 2000.
La volontà muove infatti dalla presenza “ideale” (concettuale) dei suoi desiderata. In questo caso il concetto rappresenta un semplice rimando al vero oggetto del desiderio (la realtà concreta). Mentre il conoscere tende ad un possesso concettuale (“ideale”) della realtà, il desiderio, per dirsi soddisfatto, non si accontenta di cogliere il concetto della cosa, esso vuole la realtà “in natura”. “Volere”, “desiderare” sono verbi che esprimono un bisogno, denunciano una mancanza che chiede d’essere colmata. Si vuole ciò che non si ha. Si desidera ciò di cui ci si sente bisognosi.
Osserva Severino: «Verità è sintesi dell’asserto e della validità o fondazione assoluta dell’asserto (dove ‘validità’ e ‘fondatezza assoluta’ significano capacità assoluta di toglimento di ogni negazione dell’asserto): sintesi di ciò che è detto e del valore assoluto di ciò che è detto. […] pertanto la semplice posizione dell’asserto […] non è ‘verità’: se ‘verità’ è la sintesi del contenuto e del valore del contenuto, un momento della sintesi non è ‘verità’». E. SEVERINO, Studi di filosofia della prassi, cit., p. 99.
«È inerente nella posizione problematica la credenza (proprio nel senso di ‘far credito’) nella possibilità di arrivare a conoscere tanto della realtà intorno a cui si discute, quanto basti per dare una risposta al problema. Nella stessa guisa colui che cammina crede nel terreno che sosterrà il suo passo, che non gli ceda innanzi. Senza tale credenza, senza tale disposizione che diremo aggressiva, la coscienza non si accingerebbe a risolvere il problema». G. BONTADINI, Saggio di una metafisica dell’esperienza, cit., p. 29.
Detto per inciso: il conoscere non sempre, necessariamente, un “volere conoscere”. Il pensare, in quanto relazione intenzionale all’essere, si rivela, in prima battuta, come coscienza del dato d’esperienza la quale, appunto, si offre al conoscere come un che di dato, di rivelato alla coscienza senza che questa possa dirsi potente sul dato stesso. La realtà dell’esperienza ci interpella anche senza il nostro consenso, e molte volte non vorremmo “conoscere” ciò che è dato esperire. Tuttavia, la logica di queste nostre riflessioni, tende a sottolineare il valore conoscitivo della volontà intesa come strumento prezioso per ampliare consapevolmente le determinazioni dell’esperienza immediata.
Il conoscere mosso dalla mera ragione speculativa è infatti incapace di decidersi di fronte a opzioni in sé incontraddittorie e, quindi, ugualmente possibili. In questo senso la volontà, se da un lato mette a rischio di errore la ragione col suo forzarla in favore dell’opzione creduta, dall’altro le offre la possibilità – qualora la volontà riesca a fruire del suo oggetto di desiderio – di godere di una porzione dell’Intero altrimenti inaccessibile.
Un’ulteriore osservazione sulla posizione severiniana può risultare illuminante: in lui la fede gioca la sua partita esclusivamente sul piano del conoscere. Essa rappresenta cioè una forma (imperfetta) di sapere e, sulla base di questa riduzione, viene sottomessa e negata dalla ragione. La fede, però, non rappresenta propriamente una forma di conoscenza, bensì un’esperienza vissuta. Essa descrive una dimensione esistenziale soggetta ad una formalità diversa (benché non opposta!) rispetto alla ragione epistemica e le cui ragioni di fondo – pur soggette al principio di non contraddizione – si radicano su motivazioni diverse rispetto alla logica dell’incontrovertibilità.
Questa capacità di ridurre al silenzio la tesi opposta è caratteristica propria della verità (epistemica), la cui solidità si regge proprio sulla negazione incontrovertibile della propria contraddittoria. Se un tal sicurezza la si pretende per la fede (e certo è una tentazione molto forte quando ci si confronta con le fedi altrui, religiose o meno), allora si corre il rischio di usare la “verità” di fede come una spada, cercando di tradurre la propria certezza soggettiva in regola oggettiva cui chiunque è tenuto a piegarsi. D’innanzi alla verità vi può essere solo l’assenso che sgorga dal riconoscimento dell’innegabile. La fede, al contrario, può contare soltanto sulla sua vero-similgianza, sulle sue buone ragioni, sulla sua capacità di convincere. La verità, quando si esprime, è assertiva. La fede è dialogica!
Come porsi, dunque, di fronte alla dottrina che predica l’armonia tra fede e ragione? Semplicemente riconoscendola come un’esigenza naturale della fede, la quale crede nella possibilità di conciliare il proprio credo (proprio in virtù della sua ragionevolezza) con il dettato del logos. Tale fiducia nell’armonia tra fede e ragione esprime dunque un postulato essenziale della ragion pratica ma, in quanto tale, esso resta soggetto, quanto alla sua verità, al giudizio della ragion speculativa. Lungo questa linea, fino a che non se ne possa offrire prova incontrovertibile, anche la comune radice a quo di fides e ratio resta, per la ragione speculativa, un problema.
Si pensi per un attimo al rapporto di coppia: quando amo e scommetto sul rapporto che mi lega alla persona amata – al punto da voler formare con lei una famiglia – sono certamente convinto dell’amore di chi mi sta a fianco. Non ne dubito, altrimenti non costruirei la mia vita su quel rapporto. Eppure non posso provare incontrovertibilmente la verità di questa mia fiducia (non solo perché il marito …è sempre l’ultimo a sapere le cose, ma più radicalmente perché la coscienza d’altri resta per il soggetto un mistero sondabile). Non posso quindi affermare la verità (epistemica) del nostro amore – ed infatti sono sempre esposto al rischio della delusione – eppure “so” di non ingannarmi, “sento” che la mia fiducia è ben riposta, “vivo l’evidenza” dell’amore che riconosco nei gesti, nelle prove e anche nei silenzi della quotidianità. Posso dire di non essere certo dell’amore della mia compagna? E mi cambia qualcosa non poterlo dimostrare?
Nel contempo, però, quanta arroganza nasconderebbe l’affermazione circa la verità indiscutibile dell’amore altrui nei miei confronti; quanta sfrontatezza dietro alla volontà di non riconoscere la possibilità della delusione!
Provo a chiarire con un esempio. Se dico: “la mia macchina è parcheggiata in strada”, ma io sono seduto comodamente nel mio salotto, posso certamente affermare qualcosa di “vero in sé” (se effettivamente la macchina è ancora parcheggiata là dove io l’ho lasciata), ma non posso mostrare l’incontrovertibilità della mia affermazione. In fondo, io credo che la mia macchina sia ancora là, ma non è in contraddittorio (ovvero impossibile) pensare che qualcuno me l’abbia rubata.
Un altro esempio: credo nella sincerità di un amico. Dal suo comportamento abituale penso di poter trarre buone ragioni per fidarmi di lui e credo che i segni esteriori della sua amicizia corrispondano alla sua vera disposizione nei miei confronti. Sono quindi convinto della verità del suo sentimento di amicizia. Ma posso dire di sapere veritativamente (cioè in modo incontrovertibile) ciò che lui prova effettivamente per me? Il suo mondo interiore, non mi appare. Del resto, so della possibilità di restare deluso; so bene che, anche nella valutazione delle amicizie, l’errore è tutt’altro che impossibile. Alla luce di queste considerazioni non posso quindi affermare secondo verità (cioè in modo epistemico) la genuinità del suo sentimento, e tuttavia sono convinto della verità della nostra amicizia. Confido cioè nel fatto che le cose stiano effettivamente così come credo (e non altrimenti), che alla mia fede corrisponda un identico stato di cose.
In questo senso la verità rivela il suo lato trascendentale (secondo il dettato scolastico) in quanto si predica universalmente di ogni ente (ogni ente è ciò che è, nei modi e nei limiti in cui è, a prescindere dal suo essere oggetto di sapere stabile). Volendo usare un’immagine, potremmo dire che la verità logica è un sottoinsieme della verità ontologica, nel senso che non vi può essere verità logica che non esprima, contenutisticamente, una verità ontologica. D’altro canto, è non è affatto contraddittoria la possibilità di dire il vero (materialmente) senza poterlo dimostrare formalmente come tale.
Ovvero negazione del giudizio posto in relazione di contraddittorietà rispetto al contenuto affermato come vero. Sia x il giudizio affermato come vero, per poter giustificare la pretesa di verità di x devo poter negare ¬ x, cioè dimostrarne la contraddittorietà. Stessa cosa per affermare la verità di ¬ x (ad esempio la non assolutezza del divenire) devo dimostrare la contraddittorietà della sua contraddittoria, ovvero di x (nel nostro esempio, l’assolutezza del divenire).
La fede correttamente intesa rappresenta quindi una forma sapienziale, una sorta di saggezza pratica e non certo una scienza (nell’accezione greca del temine epistéme).
Qui il riferimento va alla vulgata debolista che vorrebbe il conoscere costretto entro l’angusta prigione del mero frammento e della sua ermeneusi infinita. Non posso sviluppare in questa sede un confronto diretto col pensiero debole; permettetemi dunque un rimando al mio Il problema etico nel pensiero di Gianni Vattimo. Considerazioni su forza e debolezza, tolleranza e carità, in Etiche e politiche della post-modernità (a cura di C. Vigna), Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. 283-301.
Le regioni dell’anima. Il rapporto tra fede e ragione a partire dal pensiero di G. Bontadini
The relationship between faith and reason is a central issue of Christian thought. From a philosophic perspective, can we adopt a fideistic position as a start point for our arguments? To what extent can faith accept judgment of reason? Or has reason exclusively to serve Revelation?
The tradition of Christian thought repeteadly focused on this question and attempted to reconcile the autonomy of rational speculation with the fidelity at the Doctrine. Within this tradition, Sergej Averincev emerges according and thanks to the strength of his metaphors and images. The Russian writer symbolize the relation between faith and reason like a dialogue between Athens and Jerusalem. The former is the icon of philosophical thought, the latter becomes the symbol of the theological one.
Averincev is strongly convinced that this dialogue may be fruitful only if Athens humbly acknowledges that Jerusalem is the source of truth. Otherwise, philosophy is condemned to profess a sterile arrogance. From this perspective, Averincev supports firmly the supremacy of faith upon reason.
Is this a satisfying solution? If we look at this position with the eyes of logos, we experience a feeling of unease; a fideistic perspective appears untenable with regard to its own demand of truth. What if not reason can prove the reasonableness of faith?
A possible solution seems to require the establishment of a “positive loop” of faith and reason. The features of such a relation should be both autonomy and complementarity: there should be no servant and no masternot, no positions either excluding each other and fighting for supremacy.Bboth faith and reason are the founding paradigm in their own different fields: the latter in the field of epistemic knowledge, the former for the field of wish/desire. Two paradigms helping each other to enlarge and to strengthen their respective domains.
What is the meaning of such a mutual strengthening of faith and reason may be clarified by comparing Avernicev’s proposal and the thought of Gustavo Bontadini – the main representative author of the so called neo-classic metaphysics in Italy – who thinks this relation as a kind of counterpoint, according to which the melody of faith accepts the judgment of reason in the cognitive domain.
Permettetemi una piccola confessione (siamo tra amici e so di potermela permettere): prima di ricevere l’invito a questa due giorni dedicata a Sergej Averincev non avevo avuto modo di confrontarmi direttamente con l’opera di quest’autore. L’occasione si è rivelata quanto mai preziosa, regalandomi la piacevole sorpresa di un pensiero ricco di suggestioni e di spunti di riflessioni. Alcune di queste le vorrei oggi condividere con voi. Premetto fin d’ora il carattere non certo specialistico del mio intervento, non ne avrei la competenza. Non intendo cioè affrontare criticamente l’opera di Averincev quanto piuttosto provare a sviluppare una riflessione ispirata dalla lettura di alcune pagine del pensatore russo. Non un discorso su Sergej Averincev, dunque, bensì un dialogo ideale con Sergej Averincev (e col mondo spirituale di cui egli è espressione).
Personalmente mi sono dedicato a lungo allo studio della così detta metafisica neoclassica, erede di quella tradizione di pensiero che affonda le sue radici nell’Atene del sesto secolo avanti Cristo. Un pensiero, quello neoclassico, caratterizzato da un approccio speculativo estremamente razionale, che ha nel logos il suo stile intellettuale e nell’epistéme il proprio fine agognato. Un pensiero, tuttavia, animato dal desiderio di riscattare con gli strumenti della ragione una fede che ha altrove il proprio luogo d’origine: in Gerusalemme – per restare alle suggestioni del testo di Averincev – ovvero nell’ascolto della buona novella.
Atene e Gerusalemme simboleggiano pertanto in modo efficace quanto suggestivo il rapporto tra fede e ragione, tra il senso ultimo dell’esistenza e la necessità di una sua intelligibilità razionale. Gustavo Bontadini, uno degli autori più rappresentativi della riflessione neoclassica, amava parlare di fede e ragione come di due “luoghi dell’anima”, due istanze che abitano l’esperienza umana e che richiedono una sintesi capace ad un tempo di essere rispettosa delle differenza ma altresì arricchente per entrambe. Con compiaciuta sorpresa mi sono dunque ritrovato nelle pagine di Averincev quando questi ci parla di Atene e di Gerusalemme come di “due principi creativi”. In quelle pagine ho scorto infatti la preziosa tensione tra l’ascolto fiducioso della rivelazione e l’esigenza di una sua traduzione razionale.
Le assonanze possono però nascondere anche modulazioni diverse di uno stesso tema e, talvolta, esse possono declinare in modo sensibilmente diverso un’unica idea di fondo. Proprio su questo vorrei ora provare a svolgere un breve ragionamento.
Il nucleo centrale di questo mio contributo credo sia ormai palese: esso è rappresentato dalla dialettica fede/ragione, dalla necessità di una loro integrazione e dalle difficoltà connesse al loro dialogo reciproco. Entrambe anelano infatti la stessa meta: il possesso sicuro della verità. Entrambe ritengono di possedere le chiavi giuste per raggiungerla e si contendono vicendevolmente la primazia nell’ordine conoscitivo. Rispetto a tale dialettica la posizione di Averincev è abbastanza chiara: egli è convinto del ruolo ancillare della filosofia, incapace da sola di giungere al fondo del reale in quanto viziata da un astrattismo che tende ad isolarla dalla concretezza della vita. Queste considerazioni lo spingono a denunciare i rischi cui inevitabilmente si espone Atene nel momento in cui non sa (o non può) porsi in ascolto dell’annuncio salvifico di Gerusalemme. Rischi resi concreti nello stile intellettuale inaugurato dalla riflessione greca ed ereditato dal pensiero moderno. Per primi i filosofi greci «estrassero dal flusso vitale dei fenomeni l’ “essenza” stabile e uguale a se stessa […] e cominciarono a manipolarla intellettualmente». Nel far questo essi disincarnarono il pensiero dal suo legame con la vita, trasformandolo «per la prima volta da pensiero-nel-mondo a pensiero-sul-mondo». L’autonomia e l’universalità rivendicata come titolo di merito dal pensiero filosofico divennero così la cifra di un approccio al reale perennemente tentato dall’arroganza dell’autosufficienza, sordo a quelle verità che il logo, da solo, non è in grado di raggiungere. Averincev sembra dunque proporre l’incontro tra Atene e Gerusalemme nella forma di un dialogo nel quale la ragione si dimostra capace di rinunciare alla sua pretesa autosufficienza e di mettersi in ascolto della parola rivelata, accogliendo così la verità di fede quale premessa irrinunciabile ad una efficace ricerca speculativa.
Rispetto a questo approccio in cui la conoscenza di fede ordina e guida i passi della ragione, l’esempio bontadinino si muove in una direzione per certi aspetti antitetica. Il maestro della Cattolica si è sempre dimostrato insoddisfatto rispetto alla soluzione fideista (da lui abbracciata negli anni giovanili). Non la critica a livello di scelta esistenziale, né esclude ch’essa possa rivelarsi una preziosa chance per l’uomo. Bontadini nega piuttosto che un approccio filosofico marcatamente fideista possa fornire una base solida alla costruzione di una metafisica razionale (obiettivo al quale egli dedicò la vita). A suo avviso bisognerebbe avere maggior fiducia nella ragione: se ciò a cui si mira è la verità (intesa come verità stabile, come epistéme) non si può che confidare nella forza del logos ed accettare ch’esso assurga a giudice anche della ragionevolezza della fede.
Utile quindi nel corso di questa nostra due giorni di studio, il confronto con un autore che, pur condividendo con Averincev un comune orizzonte di fede, sembra gestire la dialettica fede/ragione in modo sensibilmente diverso. Cercherò di farlo in modo, per quanto possibile, schematico.
Conoscere e volere, verità e fede.
Alcuni rilievi preliminari.
Chiedere alla riflessione filosofica di sciogliere le aporie legate al rapporto tra fede e ragione significa, in fondo, riconoscerle un “primato conoscitivo”. Come a dire: se ciò che andiamo cercando è una verità stabile, capace di superare le mere opzioni soggettive (ed in grado di dar conto della propria validità) è al logos che dobbiamo rivolgerci. Il filosofare – e segnatamente la riflessione metafisica – tende naturalmente alla verità stabile (all’epistéme) come suo fine agognato e la ragione è lo strumento attraverso cui il pensiero cerca di appagare tale desiderio di verità. Come esseri razionali, come filosofi, ovvero come amanti di un sapere capace di dimostrare la veridicità delle proprie affermazioni, noi aspiriamo infatti ad una tale verità incontrovertibile.
In quanto persone coinvolte nel flusso della vita, però, noi non desideriamo una verità qualsiasi: ciò cui aspiriamo realmente è una verità in grado di dar senso alla nostra esperienza, una verità capace di riconoscere la razionalità della vita stessa. In questo nostro indagare noi scommettiamo sull’intelligibilità dell’esperienza, sul suo valore e sulla possibilità di un suo fondamento razionale. Se siamo onesti non possiamo non riconoscere come noi tutti – con le forme, i modi, le certezze e le debolezze proprie di ciascuno – quando ci apprestiamo ad affrontare il nodo del rapporto tra ragione e fede non lo facciamo certo da spettatori disinteressati, bensì come parti in causa. Questo problema ci interroga direttamente e, per così dire, “integralmente”, in quanto una parte di noi ha già deciso “la sua verità” ed ora chiede conforto alla ragione circa la ragionevolezza di questa sua scelta di campo. Siamo, per così dire, già “imbarcati” prima ancora di cominciare a riflettere filosoficamente. La nostra opzione (scommessa!) sull’esito sperato fa parte del nostro stesso cominciamento.
Come uomini e donne di fede, infine, noi crediamo nella possibilità di un fondamento trascendente capace di salvaguardare e difendere il senso ed il valore dell’esperienza umana. Lo facciamo in quanto abbiamo avuto notizia di una simile possibilità grazie all’annuncio offertoci da testimoni attendibili; grazie all’esempio di una comunità che ci ha accolti nel seno di una tradizione autorevole; grazie all’insegnamento di maestri che si sono guadagnati la nostra fiducia ed ai quali ci siamo affidati. Lo facciamo, anche, grazie ai frutti di quella stessa speranza che, sotto diverse forme e modalità d’espressione, abbiamo voluto/saputo riconoscere nel corso della nostra vita.
La complessità dell’esperienza umana si articola quindi su di una pluralità di dimensioni, distinte tra loro ma, nel contempo, profondamente interconnesse. L’umano è questa complessità originaria, fatta di ragione, di desiderio, di fede.
Provando a discriminare le coordinate essenziali di tale complessità, penso si possa iniziale distinguendo le due principali dimensioni su cui si articola l’esperienza umana. Da un lato il conoscere, quale espressione consapevole del logos (ragione); dall’altra la volontà, forza motrice dell’azione pratica (desiderio). Queste due dimensioni si caratterizzano per una loro propria “grammatica”, oltre che per una specifica “tensione intenzionale”. Sarà quindi nostra cura provare a indicarne gli aspetti peculiari. Successivamente, cercheremo di metterne in luce i punti di contatto e le reciproche connessioni.
In prima approssimazione possiamo così definire i due pilastri essenziali attorno ai quali si costruisce la complessità dell’esperienza umana:
Il conoscere in primo luogo. Esso si caratterizza per un approccio teoretico/contemplativo alla realtà. Il conoscere vive, per così dire, di evidenze. Il suo regno è quello dell’incontrovertibilità, dell’evidenza, della trasparenza dell’essere.
Il conoscere aspira alla verità delle cose più che ad una loro possibile fruizione. Il suo arco intenzionale termina infatti nella realtà in quanto conosciuta, ovvero nel possesso concettuale (ideale) della realtà stessa. Il conoscere, inoltre, si caratterizza per una propria tensione interna: formalmente esso si costituisce come sapere della totalità, nel senso che esso si determina come il luogo (l’orizzonte) entro il quale l’Intero si rivela. Tale darsi dell’essere al/nel conoscere, tuttavia, è sempre un darsi determinato, parziale. Si conosce l’ente – al più gli enti – mai l’essere nella totalità concreta delle sue determinazioni. Di qui l’incessante superamento del dato immediato da parte del conoscere, la sua insoddisfazione, la continua tensione verso un ampliamento della sua conoscenza dell’Intero. La coscienza, in questo modo, si ritrova avvinta in una contraddizione insanabile: formalmente essa è apertura all’Intero (identità di essere e pensiero); di fatto, essa ha invece a che fare solo con la parte, col frammento o, la più, con una gran massa di frammenti. La coscienza è quindi spinta ad un’incessante superamento di tale posizione di steresi, mossa dall’esigenza di ritrovare una propria equazione con l’Intero. Questa la radice del dinamismo tipico del conoscere.
La volontà (desiderio). Essa si contraddistingue, rispetto al conoscere, in virtù del suo strutturale sporgersi oltre il piano dell’immediatezza. Il desiderosi caratterizza, infatti, per il suo tendere verso ciò che non si offre nell’immediato ma che, al limite, in esso si lascia solo annunciare.
Notiamo fin d’ora che – contrariamene a quanto avviene per il conoscere – quando si desidera qualcosa la coscienza ha a che fare in modo immediato col significato della cosa e solo tramite esso (quindi mediatamente) con la realtà. La volontà, dunque, sceglie per l’esistenza reale (in re) di ciò cui il significato rimanda. Rispetto alla sfera del conoscere, dove il sapere è visto come il fine cui tendere, nel caso del desiderio il sapere rappresenta pertanto il mezzo (in quanto anticipazione ideale) attraverso il quale “agganciare” praticamente la realtà desiderata.
In ragione di questo sporgersi della volontà oltre l’orizzonte dell’evidenza e dell’immediatezza – e dunque dell’incontrovertibilità – essa è necessariamente esposta al rischio dell’errore. Quante volte, infatti, il desiderio deve fare i conti con la frustrazione!
Su questa struttura bipolare si radica la distinzione tra verità e fede. Proviamo ad offrirne una prima, schematica, definizione.
La verità è il fine cui tende la ragione epistemica. Qui il termine verità viene assunto in senso forte, ovvero non soltanto come dizione del vero, ma come sapere veritativo capace di dimostrarsi tale in modo incontrovertibile. In questa specifica accezione – tipica dell’indagine metafisica – la verità si configura come un sapere incontrovertibile dell’incontrovertibile. Un sapere, quindi, che non può essere negato in virtù dell’immediatezza e dell’incontrovertibilità con la quale si offre al pensiero. Tre le forme che un tale sapere può assumere:
a) come evidenza fenomenologica: ovvero come presentarsi di ciò che è, nei limiti e nelle modalità in cui questo si offre (entità logica, fattuale, mentale). Siamo qui sul piano della datità immediata di coscienza.
b) come evidenza logica: ovvero come immediatezza logica. Esempio principe di tale tipo di evidenza è il principio di non contraddizione. Altri esempi sono le verità analitiche (quali “il tutto è maggiore delle parti”) le quali altro non sono se non individuazioni del principio di non contraddizione.
c) come mediazione necessaria: ovvero come quel contenuto di coscienza che appare incontrovertibile – e dunque evidente – al termine di un discorso dimostrativo necessario (verità inferenziale). Si tratta quindi di un’immediatezza per aliud.
L’evidenza e l’incontraddittorietà, dunque, rappresentano i “parametri” in base ai quali è possibile garantire la verità di ogni singolo passo condotto lungo il cammino speculativo.
La fede (o certezza) rappresenta invece la convinzione pratica nella veridicità di un determinato stato di cose. Essa, agli occhi della ragione speculativa, appare come un sapere trattato in actu exercito come incontrovertibile, ma che, in sé, non è in grado di mostrare la propria incontrovertibilità, restando in tal modo speculativamente controvertibile (e dunque suscettibile di errore).
In altre parole la fede “tiene per vero” ciò che, di per sé, non è capace di dimostrarsi tale. Essa rappresenta dunque un sapere di fatto incontrovertibile di ciò che per sé si mostra come logicamente controvertibile.
Si faccia attenzione: qui non stiamo ancora parlando specificatamente di fede religiosa (la quale rappresenta tuttavia un tipo particolare di certezza), ma in generale di un contenuto di coscienza vissuto praticamente come vero (in virtù di ragioni non riconducibili strettamente alla ragione speculativa) benché incapace, per sé, di dimostrare razionalmente la propria incontrovertibilità. Così intesa, la fede si rivela quindi come la situazione tipica della nostra esperienza quotidiana. Noi viviamo comunemente nella fede e solo occasionalmente nella verità.
La fede è dunque quell’atteggiamento pratico in base al quale si acconsente a qualcosa (reputandolo conforme al vero) senza che se ne abbia evidenza razionale. La sua verosimiglianza – quanto alla stabilità ed all’incontrovertibilità (soggettiva) con la quale viene vissuta – poggia non su un “vedere”, bensì su un “volere”: (ci) si decide per la verità di ciò in cui si crede, e lo si fa sulla base di una serie di ragioni diverse dall’evidenza epistemica. In questo senso la fede anticipa l’evidenza del conoscere, scommettendo in favore della verità creduta.
Sulla circolarità di fede e ragione
Torniamo ora al rapporto tra il volere e conoscere e soffermiamoci a guardare la loro reciproca relazione. Quando il desiderio raggiunge il suo bene voluto, non è solo il volere ad essere soddisfatto. Lo è pure il conoscere. Infatti col raggiungimento dell’oggetto desiderato il conoscere vede dischiudersi una determinazione dell’essere cui, sulla base della sola evidenza immediata (o mediata in modo necessario), non sarebbe mai giunto.
Alla fine dell’arco del desiderare (se quest’ultimo giunge al possesso reale del bene voluto) si assiste infatti ad un ampliamento d’orizzonte dell’attualità presente. Da qui emerge la connessione (circolarità) tra sapere e volere; tra la dimensione contemplativa del conoscere e la dinamicità propria dell’azione.
Il sapere si dimostra interessato al dinamismo del desiderio ed alla spregiudicatezza dell’azione, in quanto quest’ultima è in grado, di fatto, di ampliare l’orizzonte dell’apparire, portando all’evidenza determinazioni dell’essere sempre nuove. Di più: la fede è lo strumento soggettivamente più efficace in vista di un ampliamento progressivo della nostra conoscenza epistemica sull’essere.
La verità, dunque, non può fare a meno della fede: non solo perché quest’ultima rappresenta una dimensione originaria dell’umano, ma anche (e direi soprattutto) perché la fede si rivela strumento necessario al progressivo dischiudersi dell’essere al conoscere. Senza di essa il logos si vedrebbe limitato entro poche (benché preziose) verità prime e schiacciato sull’evidenza del mero dato immediato, senza possibilità di ampliare il suo sguardo sull’Intero.
D’altro canto, neppure l’azione è estranea al conoscere. Al contrario, essa si radica sulle conoscenze già acquisite dalla ragione, utilizzandone i concetti come mezzi per l’ottenimento dei suoi fini. L’azione, inoltre, presuppone come sua condizione essenziale, la consapevolezza della possibilità reale del termine cui tende; dipende quindi dalla razionalità del logos quanto alla ragionevolezza del proprio desiderio (desiderare ciò che si sa impossibile significa infatti cadere nella follia).
Cominciano così a delinearsi i tratti della circolarità originaria tra fede e ragione: da un lato sappiamo infatti che la verità vive (anche) del suo rapporto strutturale con la fede, ovvero che essa non può fare a meno di un uso consapevole della certezza quale possibilità pratica al dischiudersi di determinazioni sempre nuove dell’essere (inevitabilità della fede). Dall’altro, abbiamo messo in luce come la fede si regga sulla ragionevolezza e sull’incontraddittorietà dei propri desiderata, sulla loro vero-simiglianza (razionalità della fede).
L’intimità di fede e ragione non deve però far scordare ciò che le distingue: la ragione speculativa si sostanzia della sicurezza e dell’indubitabilità dell’epistéme. La fede, al contrario (benché cerchi di garantirsi una propria solidità razionale) non può mai divenire altro da sé, senza con questo negarsi (facendosi, essa stessa, verità epistemica). La fede non può infatti liberarsi dal rischio dell’errore, al quale è strutturalmente esposta, se non al prezzo di cadere nella gnosi.
La fede, benché capace di offrire al conoscere delle chances che altrimenti gli sarebbero precluse, opera propriamente su una dimensione diversa rispetto a quella del sapere speculativo. Essa ha infatti a che fare con la dimensione pratica dell’esperienza umana e può quindi costituirsi come certezza, di fatto, indubitabile a dispetto (o al di là) delle possibili riserve sollevate sul piano prettamente speculativo. La fede gode cioè di ragioni (e per i più fortunati di evidenze) le quali – pur non riconducibili a formalità dimostrativa incontrovertibile – sono sufficienti a “cementare” una certezza esistenziale capace di resistere alle insidie del dubbio. Ciò non di meno la fede pur non essendo necessariamente abitata dal dubbio (come invece vorrebbe Emanuele Severino) è strutturalmente esposta al rischio dell’errore. Ciò nonostante essa vive tale rischio non come un freno, bensì come una sfida nella quale mettersi in gioco, convinta della bontà della propria scelta.
Da quanto detto fino ad ora emerge come fede e ragione “funzionino” e siano reciprocamente fruttuose solo quando operano all’interno della suddetta circolarità e nel rispetto delle rispettive peculiarità. Allora esse si alimentano e sorreggono l’un l’altra. Altrimenti?
La ragione isolata porta ad un intellettualismo sradicato dalla vita, ad una chiusura nella mera formalità logica, sorda agli stimoli ed agli appelli dell’esperienza quotidiana. In questo Averincev coglie senza dubbio nel segno. La posizione di Severino può apparire in tal senso paradigmatica: stando al dettato del suo magistero, qualora le certezze dell’esperienza concreta dovessero opporsi alla verità del logos… tanto peggio per la vita! Certo l’inconveniente potrà risultare spiacevole, ma sempre e soltanto di mero inconveniente si tratterebbe.
D’altro canto la sola fede, la quale rifiutasse la “protezione” della ragione ritenendola eccessivamente rigida e formalistica, cadrebbe inevitabilmente in un fideismo incapace di dar ragione delle proprie convinzioni. Una fede muta rispetto alla possibilità di giustificare la proprie certezze, di argomentare ragionevolmente le proprie speranze, si rivelerebbe inoltre disarmata nel confronto le fedi altrui – religiose o meno che siano – divenendo in tal modo facile preda dell’irrazionalità e del fanatismo.
Passando poi ad analizzare il particolare rapporto che lega la fede religiosa al logos epistemico, si nota come anche in questa specifica configurazione del rapporto tra verità e certezza la “relazione nella diversità” continui a rappresentare la cifra distintiva della buona reciprocità. La fede chiede infatti alla ragione garanzie di senso quanto alla possibilità (non-contraddittorietà) della rivelazione. Se possibile, la fede chiede alla ragione non solo una “garanzia negativa”, ovvero l’incontraddittorietà dell’esistenza di Dio, ma una positiva affermazione circa la necessità di un fondamento trascendente. In quest’affermazione (per quanto astratta, e povera di determinazioni concrete) la fede trova infatti conforto e conferma alla sua decisione di accogliere l’annuncio della rivelazione. La fede ha quindi bisogno (anche) di una metafisica capace di aprire, per quanto possibile, lo spazio di senso entro il quale può venir vissuta (ragionevolmente) la fede religiosa.
Considerazioni sul conflitto tra fides et ratio
Cosa fare quando fede e ragione si trovano in conflitto? Come sanare l’eventuale contrapposizione tra verità di fede e verità di ragione? Benché la due domande appaiano simili, siamo in realtà di fronte a problemi che vanno affrontati secondo prospettive diverse.
Proviamo a vedere più da vicino la prima questione: cosa succede quando fede e ragione confliggono? È opportuno aggrapparsi con fiducia alle convinzioni di fede, oppure bisogna corrispondere con coraggio al dettato di un freddo razionalismo? A mio avviso, interrogarsi sul problema in questi termini significa affrontare una questione mal posta: non esiste, infatti, una ragione in generale cui si oppone una fede in generale. Non siamo cioè costretti ad una scelta netta tra due atteggiamenti antitetici. In realtà ciò che accade è, più banalmente, il conflitto tra alcune determinate convinzioni di fede cui si contrappongono alcune obiezioni razionali. In questi termini, appare evidente come il conflitto vada sanato – caso per caso – attraverso il riconoscimento delle rispettive prerogative e dei rispettivi “limiti di campo”.
Qualora l’oggetto del contendere riguardasse propriamente la sfera della fede, oggetto sul quale la ragione epistemica non è in grado di pronunciarsi incontrovertibilmente, è chiaro che il conflitto potrebbe derivare da un’immotivata ingerenza della ragione oltre i confini della sua giurisdizione. Di converso, la fede entra in conflitto con la ragione ogni qual volta pretende di porre sulle proprie certezze il sigillo della verità incontrovertibile. Questo avviene quando la fede non si accontenta di vivere la propria certezza con speranza e convinzione, ma la vorrebbe anche al sicuro dall’errore e solida al punto da poter negare (incontrovertibilmente) ogni possibile obiezione.
Per quanto concerne, poi, la contrapposizione tra verità di fede e verità di ragione, essa si fonda su un uso improprio del termine “verità” quand’esso viene riferito alle convinzioni di fede.
La verità, in termini rigorosi (ovvero intesa come epistéme), si predica infatti della sola ragione, in quanto affermazione incontrovertibile dell’incontrovertibile. Nel caso della fede, invece, il termine “verità” viene impiegato in modo analogico e serve a sottolineare la solidità soggettiva del contenuto di fede: la “verità” della fede fa infatti riferimento all’incontrovertibilità con la quale si vive (praticamente) la propria certezza. Questo, tuttavia, non può far dimenticare la controvertibilità logica dell’oggetto creduto (la sua incapacità di negare, incontrovertibilmente, la possibilità della propria tesi contraddittoria e, quindi, di mettersi al sicuro dal rischio dell’errore).
Se si parla di verità in senso forte ci si pone necessariamente sul piano del logos e non si può che riconoscere il primato della ragione sul suo terreno proprio. Una “verità di fede”, a rigore, è un ossimoro, sarebbe come affermare un’incontrovertibilità controvertibile.
“Verità di fede” rappresenta dunque un’espressione metaforica, capace di svelare il suo “contenuto di verità” solo una volta collocata sul terreno che le è proprio, ovvero sul piano della fede vissuta (e non del conoscere inteso come sapere stabile). Tale espressione indicherà allora quel contenuto di coscienza esperito esistenzialmente con la solidità e la concretezza di una verità epistemica. E questo sulla base di ragioni non riconducibili strettamente alla sfera del logos.
In quest’ottica si chiarisce anche il riferimento alla “retta ragione”, spesso indicata come doveroso habitus intellettuale, necessario per conciliare i dettami del logos con gli insegnamenti della rivelazione.
In realtà la ragione, di per sé, non può essere che retta. Definirla tale è ridondante… a meno che, di nuovo, non si usi tale espressione in senso metaforico, per indicare cioè quella disponibilità della ragione a lasciarsi guidare dalla fede qualora da sola non fosse in grado di giungere ad un possesso sicuro della verità. Una ragione che, pur senza abdicare a se stessa, sappia dunque riconoscere i propri limiti. Una ragione che, anche qualora dovesse trovarsi ad affrontare un conflitto pratico tra ciò che crede di sapere razionalmente e ciò che la fede le insegna, sia sempre disposta ad interrogarsi con umiltà sulla solidità delle proprie costruzioni logiche, consapevole dei suoi limiti e della facilità di confondere l’illusione con la verità.
È chiaro però che, di fronte all’incontrovertibile, la fede non può che piegarsi (i beati non credono in Dio, conoscono Dio); ma qualora non vi fosse una simile evidenza, la “retta ragione” è quella che sa prestare credito alla fede. Non certo per pensare di meno, ma per pensare di più, sciogliendo i nodi dell’apparente contraddizione tra ciò che la ragione sembra implicare e ciò che la fede invita a credere.
Dire il vero e conoscere la verità.
Ritengo utile introdurre ancora una distinzione che reputo strategica al fine di una corretta impostazione del rapporto tra fede e ragione. Essa riguarda la distinzione tra verità saputa (ovvero quel sapere capace di dar ragione di sé, la verità come sapere incontrovertibile dell’incontrovertibile) e “verità” creduta o voluta (ovvero la certezza intesa come sapere soggettivamente incontrovertibile di ciò che, alla luce della sola ragione, è incapace di dar prova della propria incontrovertibilità e che deve quindi la sua saldezza ad un atto di volontà). È infatti possibile dire materialmente il vero senza saperlo formalmente come tale. È cioè possibile dire il vero (quanto al contenuto materiale del giudizio) indipendentemente dalla capacità di possederlo (dimostrandolo) secondo la formalità epistemica della ragione speculativa.
Bisogna quindi distinguere la verità logica, espressa nel giudizio, ovvero la conoscenza incontrovertibile del vero espressa dal logos (la verità in senso proprio, epistemico), da quella che potremo chiamare la verità ontologica, intesa come la verità dell’essere (il suo essere così e non altrimenti) a prescindere dal suo darsi come contenuto incontrovertibile di coscienza.
Diverso, infatti, è dire una cosa vera senza saperla (o poterla) dimostrare – e, quindi, senza poter dimostrare di dire il vero – dal poter affermare qualcosa, mostrando nel contempo, l’impossibilità della sua negazione. Nel primo caso la formalità del discorso non riesce a tenersi in pari col suo contenuto; nel secondo si assiste alla perfetta equazione tra forma (l’incontrovertibilità del logo) e contenuto (l’innegabilità del vero).
La fede crede dunque nella verità delle proprie certezze; crede cioè di affermare il vero, di esprimere correttamente la realtà dell’essere (vero ontologico). Nel far questo, però, non può pretendere che la sua fede esprima, formalmente, una verità in senso rigoroso (ovvero una verità epistemica), altrimenti non sarebbe più espressione di fede ma gnosi.
La fede ha certamente un contenuto di sapere, in quanto si riferisce ad uno stato di cose sulla base di determinate ragioni. Essa, però, non rappresenta propriamente un sapere in senso forte (rigoroso), in quanto non è in grado di eliminare la possibilità dell’errore attraverso la negazione della propria contraddittoria. Questo margine d’errore, questa distanza che separa la conoscenza di fede dal sapere epistemico dovrebbe quindi esprimersi nelle forme di una “verità indebolita”, dove il termine “verità” è utilizzato in senso analogico per sottolineare la solidità pratica della convinzione (l’indubitabilità soggettiva) e la “debolezza” – ben lungi dal cedere a mode deboliste – sta ad indicare la necessaria consapevolezza della non incontrovertibilità della fede stessa. Di qui ne consegue anche la consapevolezza dello iato che inevitabilmente separa la fragilità della fede dal possesso esaustivo della verità.
Questo deve renderci avvertiti rispetto alla tentazione di un uso “arrogante” del termine verità quando riferito ai contenuti di fede. Isolare la fede dal rischio cui è costitutivamente esposta, pretendere di esaurire il mistero della trascendenza entro i confini di una determinata espressione di fede (per quanto autorevole) rappresenta una tentazione cui l’uomo fatica a resistere.
All’uomo di fede, troppo spesso, non basta la speranza nella verità. La certezza con la quale aderisce alla rivelazione sembra una forma troppo debole rispetto alla grandezza dell’annuncio. Nasce quindi spontaneo il desiderio di far corrispondere alla maestà del vero creduto (sul quale, non a caso, viene costruita un’intera esistenza personale) la solidità della verità epistemica. In questo modo, nel suo essere attivo testimone della rivelazione, il credente è tentato di porsi nell’atteggiamento di colui che si fa portavoce di una verità innegabile – al cui cospetto chiunque è tenuto a piegarsi – piuttosto che nell’atteggiamento di colui che annuncia con l’esempio e la testimonianza la ragionevolezza della propria speranza.
Nel primo caso, sia detto per inciso, il dialogo con chi non si riconosce in quella stessa fede risulta estremamente difficile. L’uomo infatti si piega (e neppure sempre) solo innanzi alla verità innegabile, mosso dalla ragione, oppure di fronte alla violenza dispotica, mosso dalla paura.
Nel secondo caso, invece, il credente si apre al dialogo intersoggettivo sulla base di una forte motivazione interiore, ma anche con la consapevolezza del rischio che ogni fede porta con sé. In questo caso il credente si dispone in un atteggiamento di apertura rispetto alle (possibili) buone ragioni dell’altro, anche quando queste fossero critiche. Nel contempo, però, egli è capace a sua volta di dar voce alle proprie convinzioni sorrette da buone ragioni, di evidenze (per quanto sui generis), di fiducia.
Concludendo
Il primo punto mi sembra chiaro: l’invito che queste mie riflessioni – sulla scorta dell’esempio bontadiniano – vorrebbero suggerire è quello di un uso molto prudente della parola “verità”. Pochissime proposizioni (spesso povere ed astratte, per quanto fondamentali) possono fregiarsi di un titolo simile. Di qui l’opportunità di maturare un certo pudore per la verità. Essa richiede infatti di essere rispettata, evitando di voler affermare come (formalmente) vero ciò che non siamo in grado di possedere in modo incontrovertibile.
La verità possiede tuttavia una grande potenzialità liberante (e non certo violenta, come vorrebbe parte della cultura contemporanea): la verità libera infatti l’uomo dalla contraddizione, rende sicuro il suo conoscere e retto il suo agire. Bisogna quindi avere anche il coraggio del vero, ovvero la fiduciosa consapevolezza che esso rappresenta un oggetto possibile per l’intelligenza.
Pudore per la verità significa inoltre onorarne il valore anche quando non siamo in grado di raggiungerla appieno. Significa avere di mira la verità anche quando il suo guadagno risulta difficile. Come? Chiedendo sempre ragione delle proprie affermazioni, mettendole alla prova, cercando di saggiare la loro resistenza dinnanzi alle opinioni contrarie.
In questo senso, rispettare la verità non significa certamente dover rinunciare alle buone ragioni che sorreggono le nostre convinzioni ma, semplicemente, mantenere viva in noi la consapevolezza che ciò che affermiamo (quasi sempre) non è una verità epistemica. Se vogliamo essa è, al più, una “verità umana”, limitata e contingente.
Rispettare la verità significa, infine, cercare di dar vita ad un sapere vero-simile anche quando, come nel caso dell’etica, saremo chiamati ad interrogarci su fatti che non hanno carattere di necessità. Fatti sui quali il giudizio non riesce a costituirsi come espressione di un sapere incontrovertibile. Anche in questi casi, infatti, interrogheremo l’esperienza sapendo che non tutte le opinioni sono equivalenti (contro il relativismo) e cercando di discriminare, alla luce degli insegnamenti del logos, le ragioni che si riveleranno migliori delle altre (maggiormente simili al vero quanto a stabilità e forza).
Concludendo, non credo che si debba restare all’interno del conflitto tra il credo ut intelligam e l’intelligo ut credam, bensì occorre mettere questi due atteggiamenti in circolo: devo credere per cercare la verità (per conoscere). Se il mio filosofare non fosse mosso dall’interesse per una data verità, se non avessi fiducia nella sua possibilità, volgerei infatti altrove le mie energie. Del resto, come ricorda l’adagio, nessuno è più cieco di chi non vuol vedere (e ciò vale per tanta parte dell’antimetafisica contemporanea). Dall’altro lato, per credere consapevolmente e ragionevolmente devo conoscere, devo cioè provare la razionalità della mia fede. Questo è un compito non banale; questa la sfida a cui il dialogo tra Atene e Gerusalemme ci invita.
S. AVERINCEV, Atene e Gerusalemme. Contrapposizione e incontro di due principi creativi (1971), Donzelli Editore, Roma, 1999.
Ibidem.
In questa sua solidità, in questa sua capacità di “stare” (stéme) e di imporsi “sulle” (epí) proprie possibili negazioni, risiede il senso originario della verità come epistéme.
Mi rendo conto del tratto brachilogico di questi passaggi. Una loro esaustiva determinazione costringerebbe però a superare i limiti imposti a queste note. Per una loro trattazione più articolata si rimanda a G. BONTADINI, Saggio per una metafisica dell’esperienza, Vita e pensiero, Milano, 1995; IDEM, Conversazioni di Metafisica, Vita e Pensiero, Milano, 1995; P. GREGORETTI, Sul rapporto tra filosofia e religione, Edizioni università Trieste, 2000; IDEM, La religione nell’incontro di ragione e fede, Aa.Vv., La questione di Dio oggi, Piemme, Casale Monferrato 1989, pp. 61-74; E. SEVERINO, La struttura originaria, Adelphi, Milano, 1981; IDEM, Studi di filosofia della prassi, Adelphi, Milano, 1984; C. VIGNA, Ragione e religione, Celuc, Milano, 1971; IDEM, Il frammento e l’intero, Vita e Pensiero, Milano, 2000.
La volontà muove infatti dalla presenza “ideale” (concettuale) dei suoi desiderata. In questo caso il concetto rappresenta un semplice rimando al vero oggetto del desiderio (la realtà concreta). Mentre il conoscere tende ad un possesso concettuale (“ideale”) della realtà, il desiderio, per dirsi soddisfatto, non si accontenta di cogliere il concetto della cosa, esso vuole la realtà “in natura”. “Volere”, “desiderare” sono verbi che esprimono un bisogno, denunciano una mancanza che chiede d’essere colmata. Si vuole ciò che non si ha. Si desidera ciò di cui ci si sente bisognosi.
Osserva Severino: «Verità è sintesi dell’asserto e della validità o fondazione assoluta dell’asserto (dove ‘validità’ e ‘fondatezza assoluta’ significano capacità assoluta di toglimento di ogni negazione dell’asserto): sintesi di ciò che è detto e del valore assoluto di ciò che è detto. […] pertanto la semplice posizione dell’asserto […] non è ‘verità’: se ‘verità’ è la sintesi del contenuto e del valore del contenuto, un momento della sintesi non è ‘verità’». E. SEVERINO, Studi di filosofia della prassi, cit., p. 99.
«È inerente nella posizione problematica la credenza (proprio nel senso di ‘far credito’) nella possibilità di arrivare a conoscere tanto della realtà intorno a cui si discute, quanto basti per dare una risposta al problema. Nella stessa guisa colui che cammina crede nel terreno che sosterrà il suo passo, che non gli ceda innanzi. Senza tale credenza, senza tale disposizione che diremo aggressiva, la coscienza non si accingerebbe a risolvere il problema». G. BONTADINI, Saggio di una metafisica dell’esperienza, cit., p. 29.
Detto per inciso: il conoscere non sempre, necessariamente, un “volere conoscere”. Il pensare, in quanto relazione intenzionale all’essere, si rivela, in prima battuta, come coscienza del dato d’esperienza la quale, appunto, si offre al conoscere come un che di dato, di rivelato alla coscienza senza che questa possa dirsi potente sul dato stesso. La realtà dell’esperienza ci interpella anche senza il nostro consenso, e molte volte non vorremmo “conoscere” ciò che è dato esperire. Tuttavia, la logica di queste nostre riflessioni, tende a sottolineare il valore conoscitivo della volontà intesa come strumento prezioso per ampliare consapevolmente le determinazioni dell’esperienza immediata.
Il conoscere mosso dalla mera ragione speculativa è infatti incapace di decidersi di fronte a opzioni in sé incontraddittorie e, quindi, ugualmente possibili. In questo senso la volontà, se da un lato mette a rischio di errore la ragione col suo forzarla in favore dell’opzione creduta, dall’altro le offre la possibilità – qualora la volontà riesca a fruire del suo oggetto di desiderio – di godere di una porzione dell’Intero altrimenti inaccessibile.
Un’ulteriore osservazione sulla posizione severiniana può risultare illuminante: in lui la fede gioca la sua partita esclusivamente sul piano del conoscere. Essa rappresenta cioè una forma (imperfetta) di sapere e, sulla base di questa riduzione, viene sottomessa e negata dalla ragione. La fede, però, non rappresenta propriamente una forma di conoscenza, bensì un’esperienza vissuta. Essa descrive una dimensione esistenziale soggetta ad una formalità diversa (benché non opposta!) rispetto alla ragione epistemica e le cui ragioni di fondo – pur soggette al principio di non contraddizione – si radicano su motivazioni diverse rispetto alla logica dell’incontrovertibilità.
Questa capacità di ridurre al silenzio la tesi opposta è caratteristica propria della verità (epistemica), la cui solidità si regge proprio sulla negazione incontrovertibile della propria contraddittoria. Se un tal sicurezza la si pretende per la fede (e certo è una tentazione molto forte quando ci si confronta con le fedi altrui, religiose o meno), allora si corre il rischio di usare la “verità” di fede come una spada, cercando di tradurre la propria certezza soggettiva in regola oggettiva cui chiunque è tenuto a piegarsi. D’innanzi alla verità vi può essere solo l’assenso che sgorga dal riconoscimento dell’innegabile. La fede, al contrario, può contare soltanto sulla sua vero-similgianza, sulle sue buone ragioni, sulla sua capacità di convincere. La verità, quando si esprime, è assertiva. La fede è dialogica!
Come porsi, dunque, di fronte alla dottrina che predica l’armonia tra fede e ragione? Semplicemente riconoscendola come un’esigenza naturale della fede, la quale crede nella possibilità di conciliare il proprio credo (proprio in virtù della sua ragionevolezza) con il dettato del logos. Tale fiducia nell’armonia tra fede e ragione esprime dunque un postulato essenziale della ragion pratica ma, in quanto tale, esso resta soggetto, quanto alla sua verità, al giudizio della ragion speculativa. Lungo questa linea, fino a che non se ne possa offrire prova incontrovertibile, anche la comune radice a quo di fides e ratio resta, per la ragione speculativa, un problema.
Si pensi per un attimo al rapporto di coppia: quando amo e scommetto sul rapporto che mi lega alla persona amata – al punto da voler formare con lei una famiglia – sono certamente convinto dell’amore di chi mi sta a fianco. Non ne dubito, altrimenti non costruirei la mia vita su quel rapporto. Eppure non posso provare incontrovertibilmente la verità di questa mia fiducia (non solo perché il marito …è sempre l’ultimo a sapere le cose, ma più radicalmente perché la coscienza d’altri resta per il soggetto un mistero sondabile). Non posso quindi affermare la verità (epistemica) del nostro amore – ed infatti sono sempre esposto al rischio della delusione – eppure “so” di non ingannarmi, “sento” che la mia fiducia è ben riposta, “vivo l’evidenza” dell’amore che riconosco nei gesti, nelle prove e anche nei silenzi della quotidianità. Posso dire di non essere certo dell’amore della mia compagna? E mi cambia qualcosa non poterlo dimostrare?
Nel contempo, però, quanta arroganza nasconderebbe l’affermazione circa la verità indiscutibile dell’amore altrui nei miei confronti; quanta sfrontatezza dietro alla volontà di non riconoscere la possibilità della delusione!
Provo a chiarire con un esempio. Se dico: “la mia macchina è parcheggiata in strada”, ma io sono seduto comodamente nel mio salotto, posso certamente affermare qualcosa di “vero in sé” (se effettivamente la macchina è ancora parcheggiata là dove io l’ho lasciata), ma non posso mostrare l’incontrovertibilità della mia affermazione. In fondo, io credo che la mia macchina sia ancora là, ma non è in contraddittorio (ovvero impossibile) pensare che qualcuno me l’abbia rubata.
Un altro esempio: credo nella sincerità di un amico. Dal suo comportamento abituale penso di poter trarre buone ragioni per fidarmi di lui e credo che i segni esteriori della sua amicizia corrispondano alla sua vera disposizione nei miei confronti. Sono quindi convinto della verità del suo sentimento di amicizia. Ma posso dire di sapere veritativamente (cioè in modo incontrovertibile) ciò che lui prova effettivamente per me? Il suo mondo interiore, non mi appare. Del resto, so della possibilità di restare deluso; so bene che, anche nella valutazione delle amicizie, l’errore è tutt’altro che impossibile. Alla luce di queste considerazioni non posso quindi affermare secondo verità (cioè in modo epistemico) la genuinità del suo sentimento, e tuttavia sono convinto della verità della nostra amicizia. Confido cioè nel fatto che le cose stiano effettivamente così come credo (e non altrimenti), che alla mia fede corrisponda un identico stato di cose.
In questo senso la verità rivela il suo lato trascendentale (secondo il dettato scolastico) in quanto si predica universalmente di ogni ente (ogni ente è ciò che è, nei modi e nei limiti in cui è, a prescindere dal suo essere oggetto di sapere stabile). Volendo usare un’immagine, potremmo dire che la verità logica è un sottoinsieme della verità ontologica, nel senso che non vi può essere verità logica che non esprima, contenutisticamente, una verità ontologica. D’altro canto, è non è affatto contraddittoria la possibilità di dire il vero (materialmente) senza poterlo dimostrare formalmente come tale.
Ovvero negazione del giudizio posto in relazione di contraddittorietà rispetto al contenuto affermato come vero. Sia x il giudizio affermato come vero, per poter giustificare la pretesa di verità di x devo poter negare ¬ x, cioè dimostrarne la contraddittorietà. Stessa cosa per affermare la verità di ¬ x (ad esempio la non assolutezza del divenire) devo dimostrare la contraddittorietà della sua contraddittoria, ovvero di x (nel nostro esempio, l’assolutezza del divenire).
La fede correttamente intesa rappresenta quindi una forma sapienziale, una sorta di saggezza pratica e non certo una scienza (nell’accezione greca del temine epistéme).
Qui il riferimento va alla vulgata debolista che vorrebbe il conoscere costretto entro l’angusta prigione del mero frammento e della sua ermeneusi infinita. Non posso sviluppare in questa sede un confronto diretto col pensiero debole; permettetemi dunque un rimando al mio Il problema etico nel pensiero di Gianni Vattimo. Considerazioni su forza e debolezza, tolleranza e carità, in Etiche e politiche della post-modernità (a cura di C. Vigna), Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. 283-301.