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La sfida postmoderna per il pensiero cristiano

Il pensiero cristiano odierno è un pensiero pregno di nostalgia. Sembra infatti che il meglio dell’era cristiana si trovi gia alle nostre spalle. Alla marcia vittoriosa della cristianità. che conquistò innanzitutto spiritualmente l’Impero romano e dopodichè si costituì nel Medio Evo (del mondo occidentale) come realtà socio-politica esclusiva ed universale, il pensiero moderno cominciò ad opporsi, assestando colpo su colpo al cosmo cristiano – sia nel senso di visione del mondo, sia nel senso di prospettiva di rilevanza sociale. La modernità, come dice la parola stessa, intese vedere nella metafisica greca e nella scolastica medievale un qualcosa di antico, per non dire di antiquato. Il pensiero cristiano, il quale fu mantenuto dalla Chiesa cattolica in stretta connesione con la scolastica dell’Alto Medio Evo, non riusciva più a tener testa alle considerazioni “moderne”, sempre più chiudendosi e rivolgendosi disperatamente alle eterne intuizioni della filosofia classica (philosophia perennis). Essendo questi sviluppi internamente connessi con la perdita della rilevanza sociale, ovvero con il fenomeno di ciò che la Chiesa designa come “secolarizzazione”, non ci può stupire che nella Chiesa si sia insinuata un pò di nostalgia e qualche sospiro riguardo ai “buoni vecchi tempi”.

Ma è sempre possibile andare di male in peggio. Il tempo che abitiamo, che viene spesso definito come “postmoderno”, si sta rivelando una vera e propria apocalittica rivelazione della fine del mondo occidentale e dei suoi valori fondamentali. Se la modernità con l’emancipazione dell’uomo diminuì l’incidenza della visione del mondo cristiana – rimanendo tacitamente seguace ai valori dovuti proprio al cristianesimo – sembra che l’era postmoderna con la sua pluralità relativista e la sua non-obbligatorietà insinui la distruzione di tutti i valori e affermi il caos. Il Caos, il dis-ordine, è peggio di un “ordine” diverso, del quale fu portatrice la modernità (opponendolo all’“ordinamento” cristiano della realtà). Il dis-ordine, il non-ordine designa il governo del “no”, del negativo, del niente. L’era postmoderna sembra essere la vittoria del nichilismo, a dimostrazione dell’astuto ruolo del niente, che viene dimenticato proprio a causa della sua nullità, mentre in verità tutto è sottoposto al suo governo.

Questo è il motivo per cui il cristianesimo coltiva un ricordo nostalgico del passato e dimentica, che nella sua stessa essenza è fondato nel futuro. Dimentica che il modo d’essere fondamentale dell’esistenza cristiana è il futuro, che nel suo arrivare libera il presente. Proprio rispetto a questo futuro, che non è soltanto una negazione del presente (come “non-ancora” presente), ma è bensì la positività dell’arrivare, possiamo comprendere diversamente il momento storico presente. Forse l’epoca postmoderna possiede molto più spirito cristiano di quanto saremmo pronti a concedere.

1. Tratti generali dell’era postmoderna

Il concetto dell’era postmoderna che si ritrova nel vocabolario filosofico appena da due decenni, non è univoco, perciò tenteremo qui di riassumere le sue caratteristiche generali. La postmodernità designa innanzitutto l’era filosofica odierna nella sua differenza rispetto al pensiero moderno. Questo ci rinvia alla domanda riguardo la specificità del pensiero moderno. Diversamente dalla metafisica classica, dove l’uomo fa parte dell’ordine ontologico generale (o cosmo), l’uomo moderno diventa il fondamento di tutto – è l’unico “sub-iectum”, è quello che tutto sor-regge, che “giace-sotto a tutto” (sub-iacere), che tutto sostiene e fonda (il che viene rivelato anche dalla trasformazione di significato dal soggetto antico – hypokeimenon – al soggetto moderno puramente umano). Esempio paradigmatico di questo nuovo fondamento (anche nel senso di procedura formale del pensiero filosofico) è senz’altro Descartes con il suo (ego) “cogito”. Proprio il suo pensiero ci manifesta – attraverso la sua ricerca esistenziale di certezza – la pulsione interna del pensiero moderno: l’auto-fondazione. La possibilità di autofondazione è compresa come emancipazione etica, come atto liberatore, che permette all’uomo di giungere all’autonomia e alla sovranità. Allo stesso tempo però rivela l’uomo come fondatore – almeno come datore di senso – di tutto l’(ess)ente. Se il soggetto autofondato diviene il nuovo principio, il nuovo archè (principium), allora diviene necessaria l’inclusione dell’altro significato di questo termine metafisico: “governo”. Il soggetto moderno governa e sottomette la realtà. Questo può accadere in diversi modi: dalla incarnazione del pensiero nella realtà (che permea il razionalismo fino a Hegel) fino alla sottomissione empirico-scientifica (da Bacone fino allo sviluppo della scienza empirica matematizzata). L’idealismo tedesco esalta lo spirito umano che “sottomette” alla potenza del suo pensiero tanto la natura inferiore quanto la divinità superiore.
Se l’era postmoderna significa una cesura rispetto al pensiero moderno, allora l’eminente pensatore postmoderno è senz’altro Nietzsche. Come nessun altro rivelò la vera essenza del pensiero moderno (e di tutto il pensiero metafisico) nella sua tendenza a sottomettere (dominare) o, con il termine nietzscheano, nella sua “volontà di potenza”. Ma, Nietzsche va oltre. La volontà irrazionale vitale è quell’ultimo fondamento dell’uomo e della realtà, che toglie ogni illusione riguardo all’autofondazione, e dunque riguardo all’autonomia, alla sovranità, all’autopossesso del soggetto cartesiano. Piu’ che la morte di Dio è per Nietzsche forse fatidica la morte del soggetto (molto prima del sintagma di Foulcault). L’uomo di Nietzsche è un uomo condizionato, anche se è un superuomo – egli è condizionato e dominato dalla volontà di potenza, che poi viene da lui espressa in continuazione. Proprio a causa di questa ambiguità possiamo capire Nietzsche come colui che spezzò la tradizione metafisica, ma che allo stesso temo la portò al proprio vertice – rivelando al massimo grado il suo motore interno – la volontà di dominare (questa è la tesi di Heidegger). Il pensiero di Nietzsche delinea due caratteristiche fondamentali del pensiero postmoderno: la condiziona­tezza del soggetto (togliendo la possibilità di una autofondazione razionale) e conseguentemente la sfiducia nella conoscenza – come impossibilità di una unica ed obbligatoria comprensione della totalità (il che de facto designa la liquidazione di una razionalità unica ed integra). Secondo Nietzsche la ragione e la – a lei connessa – verità sono “prospettiche” – il che presenta il prototipo della pluralità potmoderna.
Il soggetto condizionato e la pluralità delle «razionalità» sono due tratti generali, che possono essere osservati nelle diverse correnti del pensiero contemporaneo. Come due esempi ci possono servire Wittgenstein e Heidegger. Il primo Wittgenstein può essere considerato come rappresentate tipico del paradigma filosofico moderno, in quanto cerca un linguaggio ideale (mathesis universalis), che possa esprimere in maniera univoca la realtà (compresa nel senso dei fatti atomici e le sue combinazioni). In tal modo presuppone una ed unica razionalità capace di rispecchiare il tutto della realtà (qui lasciamo a parte l’elemento mistico in Wittgenstein). Il secondo Wittgenstein invece effetua una svolta, che nella sua essenza riassume il passaggio verso il paradigma postmoderno. Il linguaggio non è più considerato come strumento del soggetto sovrano, con il quale egli puo denominare ed esprimere (ma anche comprendere e dominare) la realtà. Al contrario, linguaggio è quell’orizzonte, che precede il soggetto e dentro di quale il soggetto si costituisce come tale. Il linguaggio e legato ad una certa prassi umana ovvero ad una forma di vita (Lebensform, way of life), dove si stabilisce il significato. L’uomo si trova già inserito nel linguaggio ed è condizionato da esso, senza poter uscire fuori e costruire un linguaggio ideale universale. Non esistono significati ideali delle parole; essi sono fondati nella forma di vita rispettiva – che rende possibile la pluralità della significazione. In altri termini – i giochi linguistici (Sprachspiele, language-games) nel secondo Wittgenstein designano la «prospetticità» ovvero la pluralità di comprensione senza una razionalità comune ed unica. Perciò Wittgenstein rimane il modello del così detto «linguistic turn» nelle sue molteplici forme del ventesimo secolo (p.e. ordinary language philosophy).

Una simile struttura interna si può rintracciare anche nello sviluppo del pensiero di Heidegger e dell’ermeneutica. Ai suoi inizi, prima di elaborare il problema (sul senso) dell’essere, il punto di partenza di Heidegger rappresenta la vita (umana) nella sua fattualità, alla quale appartiene la comprensione (forse solo implicita) di se stessa. La vita concreta vissuta designa quel primo orizzonte, che precede ogni riflessione esplicita dell’uomo. Egli non ha nessun possibilità di mettersi fuori, di diventare spettatore «disinteressato» («unbeteiligter Beobachter» di Husserl) e così di «fondare» teoreticamente la sua vita, ovvero se stesso. Piu tardi l’orizzonte della vita viene sostituito dal quello (piu profondo) dell’essere, però la struttura non cambia. La comprensione dell’uomo rimane condizonata dalla fattualità, nella quale si svolge il suo essere (nel senso verbale), perciò ogni comprensione è prospettica e finita (laddove finitezza va compresa nel senso positivo). Comprensione non è altro che «interpreta­zione» della vita ossia «l’ermeneutica della fattualità». Lo sviluppo ulteriore dell’ermeneutica mette in rilievo il carattere provisorio della comprensione e l’impossibilità di un’interpretazione esclusiva (e di conseguenza della verità assoluta).

La deposizione del soggetto autofondante, in quanto condizionato, è un tratto osservabile in tanti altri pensatori del ventesimo secolo. Freud introduce l’inconscio, che condiziona la coscienza e la conoscenza. Su queste basi si fonda la psicoanalisi teorica di Lacan. Lo strutturalismo francese rivela il soggetto in quanto condizionato dalle strutture diverse. La decostruzione di Derrida disperde l’illusione dell’essere stabile e lo rivela (con la sua differance) come condizionato dall’alterità. La caratteristica generale sembra essere la rinuncia all’autofondazione del soggetto, la sua deposizione in quanto fondamento (e «padrone») della realtà. Questo implica sfiducia nel ruolo fondante della razionalità e l’apertura verso l’altro (rispetto all’io e alla sua conoscenza razionale) – l’«altro» diventa termine commune per quella «condizionatezza» del soggetto, che non può essere conquistata dall’io, che resiste alla conoscenza e sottomissione. La deposizione designa così spossessamento del soggetto.

2. Significato etico della «svolta» postmoderna.

Nello “spossessamento” postmoderno del soggetto possiamo individuare anche un profondo momento etico. Se comprendiamo l’eticità non in senso classico, cioè nell’antico significato di virtù etica (secondo il quale “virtus” significa nello stesso tempo forza – nel senso di capacità di autocontrollo e di perfezione dell’agire), bensì nel senso giudeo-cristiano dell’etica della relazione, secondo cui l’io fa posto all’altro e l’altro diventa primo, allora in questo caso la sostituzione del soggetto rappresenta la prima azione di rinuncia all’io, all’egoismo, azione che apre all’altro. Sicuramente questo non è l’unico momento, forse nemmeno quello preponderante della svolta postmoderna (che in più di qualcosa rimane ambi­gua a livello etico), tuttavia non possiamo ometterlo, anzi è giusto cercare di tematizzarlo.

Se l’uomo moderno è un soggetto autonomo e indipendente, che con la propria capacità di autofondazione è in un certo senso “causa sui” (a differenza del razionalismo moderno, secondo il quale questo termine indica Dio, l’antico “causa sui” è pensato per l’uomo in quanto è libera causa delle sue proprie azioni), successivamente la “condizionatezza” postmoderna rivela la radicale contingenza dell’uomo; detto in altri termini, rivela la sua finitezza. Tuttavia la contingenza postmoderna e la finitezza ad essa unita non sono comprese nel senso del pensiero scolastico (dove proprio la contingenza e la causalità metafisica rappresentano il nucleo, il centro della filosofia scolastica). Invece di attribuire un significato negativo alla contingenza e alla finitezza, il che presuppone una positiva (in senso speculativo) realta di necessità e infinità (che appartiene a Dio), il pensiero postmoderno desidera comprenderle in senso positivo. Così ad esempio in Heidegger la finitezza non è un limite dell’uomo (che presuppone l’ideale dell’infinito), ma la struttura, l’elemento costitutivo positivo della sua esistenza; cioe una capacità positiva, che rende l’uomo uomo. L’uomo nella sua essenziale finitezza non si comprende in rapporto all’ideale della infinitezza, ma nel rapporto verso il nulla. Per questo il nulla diventa il momento costitutivo per la positività dell’essere finito.

A motivo della comprensione positiva della finitezza e della contingenza (che deriva dalla rinuncia ad ogni idealismo) viene modificata la tradizionale valutazione degli “elementi” negativi del tempo e del nulla. Il tempo non è più il boia, che minaccia e distrugge l’essere esistente, ma l’originaria possibilità (“fare possibile”) dell’essere: è l’orizzonte positivo dell’essere (altrimenti sempre finito). Possibilità che è positiva proprio perché ha perso ogni relazione con l’infinito. Da qui deriva anche la scoperta del significato positivo della storia alla fine del diciannovesimo secolo. Allo stesso modo anche al “nulla” si attribuisce un ruolo positivo. Nella prospettiva idealistica il nulla è uno pseudo-concetto, è cioè l’estrema privazione dell’ideale in quanto misura dell’essere. Nel pensiero postmoderno, che è per sua natura antiidealistico (proprio perché “anti-metafisico”), il nulla è il momento costitutivo dell’essere finito: l’essere esiste solo in rapporto al nulla, “esiste” in quanto superamento del nulla, anche se alla fine non può mai oltrepassarlo (il che implica nello stesso tempo la definitività della morte). Considerato dal punto di vista dell’idealismo e della metafisica classica, il postmoderno è nihilismo. Come si sa invece Nietzsche e Heidegger ribaltano, capovolgono il rimprovero del nihilismo nella direzione opposta: secondo loro è la metafisica idealistica, proprio in quanto considera il vero ente nell’ideale speculativo, ad essere in realtà nihilismo; il nostro concreto essere finito, infatti, a confronto con l’ideale di perfezione e di infinità, non vale «nulla». Ad ogni modo i frequenti rimproveri, oggi spesso presenti, volti a sottolineare come l’attuale occuparsi del nulla favorisca uno spirito di rifiuto, di rinnegamento e allontanamento dai fondamenti della cultura e della fede, sono inopportuni e manifestano piuttosto l’incapacità di confrontarsi con la profonda domanda esistenziale.

La sospensione del soggetto autonomo valorizza positivamente anche il momento (formale) della passività nel pensiero postmoderno. Non passività nel senso di riduzione dell’attività, ma nel senso di “sopportazione”, di “subire l’azione da fuori”. Non è il soggetto ad essere il centro e il portatore di attività: esso subisce l’azione da parte dell’alterità. Esser condizionato (la condizionatezza) da parte dell’alterità è un altro nome per l’originaria passività del soggetto. Questo fatto ci aiuta a comprendere la “svolta” nel percorso filosofico di molti pensatori contemporanei, dai già menzionati Wittgenstein e Heidegger, a Husserl e Levinas. Proprio Levinas è quel pensatore che ha maggiormente tematizzato la dimensione etica del pensiero postmoderno. La sua originalità consiste nel fatto che spiega la postmoderna “alterità”, determinante e condizionante anticipatamente il soggetto, come “Altro”, cioè come altra persona. Il soggetto sospeso e rimosso viene condizionato (nella sua passività), da parte dell’Altro, che lo chiama a responsabilità, ad assumersi la responsabilità per l’Altro, ancora prima di ricostituirsi nella sua propria apparente libertà e autonomia. L’imperativo etico (come linguaggio originario dell’altro al di la delle parole pronunciate) è l’originaria “condizionatezza” etica. Proprio nel fatto che il soggetto non può mai assumerla e dominarla – l’io nei confronti dell’altro si trova in condizione di assoluta passività (il che significa essere chiamato ad una responsabilita senza limite e fine, quindi infinita) – si puo cercare il nuovo senso dell’infinito. Nella passività infinita – con il senso positivo in quanto illimitatezza della missione etica dell’uomo – Levinas indica una possibile risposta alla domanda dell’infinità, che, in quanto concetto idealistico, è assente nel pensiero postmoderno (con problematiche conseguenze etiche). Non va infatti a cercare l’infinito nell’ambito delle possibilità (potenza, attività) dell’uomo, come ad esempio nell’intelletto (nous) della metafisica classica, ma nell’ambito della passività – come infinita vocazione, come sovrabbondanza della parola (chiamata) dalla parte dell’altro, proprio perche a tutto questo l’uomo con le sue forze limitate non può mai rispondere convenientemente e definitivamente.

3. Il pensiero postmoderno e l’esistenza cristiana

Si pone la domanda, se nel paradigma postmoderno non si trovino piu tratti dell’«elemento» cristiano che nel pensiero filosofico moderno, malgrado il fatto che l’ultimo parli molto piu di Dio. Se vogliamo riflettere su di questo non basta rivolgersi alla sintesi medievale tra metafisica classica e la rivelazione. Ci vuole un ritorno alle fonti, all’origine del cristianesimo accompagnato con la domanda sulla specificità dell’esperienza cristiana. È evidente che il pensiero filosofico moderno è sottomesso alla critica tanto della prospettiva (della metafisica) classica quanto di quella postmoderno – come sopravvalutazione dell’uomo nel senso delle sue capacita (di ragione), come tentativo presuntuoso di fondare e dominare tutto (il che ancora oggi rimane nella scienza odierna, concepita all’inizio dell’era moderna). In questo tentativo la neoscolastica con buone ragioni riconobbe la problematica emancipazione dell’uomo che vuole marginalizzare Dio e prendere il suo posto. Perciò si insisteva sull’antica metafisica. Non si e comunque posta la questione, da dove provenga il pensiero moderno, dove si trovino le sue origini nel Medioevo. Qui non basta la risposta tradizionale, che vede la colpa nel nominalismo. Chiediamoci francamente: la sintesi scolastico-aristotelica è veramente la piu adeguata per l’articolazione filosofica dell’esistenza cristiana, del suo etos e della sua visione del mondo? Non si puo riconoscere nella tendenza di fornire le prove ed ottenere la certezza di aver sottomesso la realtà (qui si situa anche la voglia di assicurarsi Dio come concetto supremo della ragione) l’espressione di un desiderio di dominazione? E dell’incapacità di accettare l’insicurezza radicale dell’esistenza umana, che però resta indispensabile per l’atto di fede e di fiducia, con il quale l’uomo si puo aprire alla parola divina?
La deposizione (e «spossessamento») postmoderna del soggetto rende possibile un’esperienza della contingenza radicale. L’uomo non puo fondare se stesso e cozza contro i suoi limiti insuperabili. Perfino la sua ragione e la razionalità come tali sono finite (limitate) – in una maniera essenziale. Di conseguenza è sempre finita (cioè mai assoluta) anche quella verità, che si trova nelle capacità e alla portata dell’uomo. I limiti del soggetto (l’io) aprono tuttavia lo spazio per l’altro, per l’«alterità», per la trascendenza assoluta. Non e una conseguenza necessaria che il soggetto deposto e espropriato si apra alla trascendenza, ma è comunque una possibilità fondamentale. Si tratta dello sperimentarsi nella propria contingenza, che è stato sempre un momento decisivo nel termine classico di «creatura», e rappresenta la base dell’esperienza religiosa. Solo che nella scolastica la ragione supera l’esperienza di contingenza e di condizionatezza per mezzo della speculazione e deduce cosi una causa prima ovvero un ente supremo (Dio), che diventa un concetto della mente. Sebbene la scolastica non cessi di ribadire l’inconoscibilità di Dio, allo stesso tempo cerca di definirlo con le categorie filosofiche. In questo modo si perde l’alterità assoluta (totaliter aliter) e la trascendenza di Dio. L’esperienza postmoderna invece non permette al soggetto, cioe alla sua ragione, di oltrepassare i limiti definitivi e portarsi fuori dalla sua condizionatezza radicale. Perciò l’esperienza della contingenza significa l’esperienza della passività (insuperabile). Il pensiero religioso postmoderno si articola nel passivo (grammaticale) – l’uomo si «trova» nella vita e sperimaneta la sua esistenza come condizonata, data, donata, senza poter superare lo stato passivo originario con l’attività del conoscere, senza poter cogliere l’aldilà, responsabile per la sua «inquietudine». In altre parole, la passività originaria del soggetto non puo essere mai trasformata nella sua attività. Lo spossessamento non lascia nessuna possibilità di recupero o di nouva (auto)possessione.
Dal punto di vista della contingenza radicale il pensiero postmoderno si mostra piu vicino al sentimento esistenziale cristiano, che riceve il suo fondamento da fuori di sé e può essere riassunto con le parole di s. Paolo: «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto» (1 Cor 4, 7b). L’esistenza cristiana si svolge come una risposta continua alla parola (al rivolgersi) di Dio, che viene d’al-di-la, che oltrepassa tutto il conosciuto e il conoscibile e che non può mai diventare l’oggetto della (sola) logica umana, oppure il possesso della sua ragione. Perciò il rapporto con la trascendenza si chiama «fede» (in opposizione alla certezza, che si basa sullo stesso soggetto). Da questo rapporto scaturisce anche la comprensione specifica cristiana del tempo: l’entrata inspiegabile della trascendenza nel tempo –in quanto l’evento nella storia (la storia della salvezza con il suo apice in Cristo) – apre una nouva relazione verso il futuro, apertura per la promessa egualmente incomprensibile (in quanto «a-venire», che fonda il futuro), alla quale corrisponde l’atteggiamento cristiano di speranza. Il cercare la certezza ovvero la sicurezza (anche sotto la forma delle prove razionali per contenuti trascendenti) designa un’atto di sfiducia nel rapporto vissuto e si presenta come diametralmente opposta all’esistenza cristiana.
Si deve tuttavia ammettere, che il pensiero postmoderno porta in se una ambiguità appartenente alla sua essenza. L’esperienza della finitezza radicale può aprire l’uomo verso il mistero della trascendenza, lo puo però anche chiudere in se stesso – dato che il pensiero postmoderno nella sua opposizione alla metafisica idealista ha sciolto ogni legame con l’infinito. Nel regno del finito non c’e piu l’imperativo etico infinito; l’etica è lasciata alla libertà, intesa però nel senso di arbitrio. La svolta postmoderna può anche significare l’esperienza dell’«esser-gettato-nel-mondo» («Geworfenheit» di Heidegger), l’abbandono, l’assenza di misura e senso, la condanna alla libertà (sempre limitata e finita). Tutto questo può condurre alla rassegnazione, perfino al comportamento destruttivo e profondamente non-etico. Non si puo comunque non vedere in questa ambiguità postmoderna l’uomo spogliato all’estremo della sua umanità, nella sua libertà abissale (cio che Pascal descrive come «ni bete ni ange») – non è questo lo specchio della sua verità?

4. Pensare con i pressupposti postmoderni

Quali possono essere gli impulsi che provengono dal pensiero postmoderno per l’attuale riflessione cristiana? La filosofia cristiana deve dapprima rinunciare alla sua pretesa di esclusività ed universalità, che è stato un tratto fondamentale della filosofia scolastica. La questione rimane, se il pensiero cristiano possa accettare la «deposizione» della ragione nel senso d’una sola razionalità. Per illustrare con un esempio: la scolastica è convinta, che il principio della causalità metafisica sia universalmente valido e cosi anche la prova dell’esistenza di Dio. Perciò ogni essere razionale sarebbe costretto ad accettarlo. Ciònonostante la situazione di fatto è diversa. È vero che i fatti non possono mettere in dubbio la logica, però rimane la questione, se la gente, che non accetta le prove metafisiche, sia irrazionale o irragionevole. Se comunque accettiamo il presupposto postmoderno della ragione finita, dobbiamo accettare la pluralità delle interpretazioni ed anche con i limiti della nostra propria verità. Questa situazione può essere chiamata ermeneutica (nel senso ampio – che non risale ad un certo pensatore) ossia la situazione della ragione «debole» (con l’allusione a Vattimo). Assodato questo, il pensiero cristiano non puo esigere l’esclusività, anche se nella prospettiva interna il cristiano accetta la rivelazione come l’unica verità salvifica e si affida alla sua certezza.
Prendendo sul serio la situazione ermeneutica aumenta l’importanza della rivelazione e della fede. «La ragione debole» deve rinunciare al suo compito apologetico, che sta(va) nel cuore della teologia naturale (prove razionali per l’esistenza di Dio). Oggi la teologia naturale può diventare propedeutica all’esperienza della propria contingenza (nel senso positivo della contingenza) come esperienza del dono (in questa direzione va il pensiero di J.-L. Marion). Non si tratta in prima linea dell’argomentazione speculativa, che condurebbe verso la causa all’origine del dono (il Donatore), bensi della fenomenologia – l’analisi fenomenologica – della donazione (nello stato di passività), che fa sorgere la sensibilità per la trascendenza, preparando cosi lo «spazio» per il Donatore che si manifesta nel dono. L’ermeneutica della donazione (conscia dei suoi limiti metodologici e senza richiedere l’esclusività della sua interpretazione) non prova Dio, ma soltanto apre l’uomo ad una possibile esperienza religiosa, affinché egli possa essere «l’uditore della parola»; ad un’apertura verso l’incomprensibile trascendenza, che non puo essere raggiunta tranne nel caso in cui essa si autocommunichi in un atto di pura gratuità.
Quando però si e colpiti da questa parola – il cristianesimo è la vita, che sorge dalla parola di Dio ossia dalla rivelazione – la nuova verità (divina) non puo contraddire la ragione, perchè la ragione postmoderna è conscia dei suoi limiti. Questo momento è importante per il pensiero cristiano contemporaneo, che non ha bisogno di essere apologetico e di armonizzare la rivelazione con la razionalità (apparente universale). La razionalità, la ragionevolezza della fede, diviene l’esigenza interna dell’esistenza cristiana nella sua integralità. L’esistenza vissuta è anche l’unico criterio della razionalità della fede. In questa prospettiva ci voule però una rinuncia alla razionalità universale, dove gli argomenti rivendicherebbero un assenso incondizionato e potrebbero svolgere un compito di persuasione o quasi missionario. L’unico modo di comunicare la visione cristiana della vita si realizza per mezzo della partecipazione all’esperienza integrale dell’esistenza cristiana e della sua propria razionalità.
La sfida postmoderna fondamentale per il pensiero cristiano non è in prima linea il dialogo «esterno» con le visioni del mondo dominanti nel nostro tempo, non e apologia delle verita cristiane contra «gentiles», che presupporrebbero una base razionale comune. La pluralità dell’epoca postmoderna incita il cristianesimo ad approfondire all’interno di se stesso la comprensione delle sue radici, di cercare nella fedeltà alle origini la sua specifica e propria «razionalità» – nel senso integrale della vita. La ricerca della propria identità include il compito di discernere tra i tratti essenziali del cristianesimo e gli «accidenti» storici. Cosi l’identità approfondita, senza pretesa di universalità, può essere la risposta cristiana ai segni dei tempi postmoderni.

La sfida postmoderna per il pensiero cristiano

Il pensiero cristiano odierno è un pensiero pregno di nostalgia. Sembra infatti che il meglio dell’era cristiana si trovi gia alle nostre spalle. Alla marcia vittoriosa della cristianità. che conquistò innanzitutto spiritualmente l’Impero romano e dopodichè si costituì nel Medio Evo (del mondo occidentale) come realtà socio-politica esclusiva ed universale, il pensiero moderno cominciò ad opporsi, assestando colpo su colpo al cosmo cristiano – sia nel senso di visione del mondo, sia nel senso di prospettiva di rilevanza sociale. La modernità, come dice la parola stessa, intese vedere nella metafisica greca e nella scolastica medievale un qualcosa di antico, per non dire di antiquato. Il pensiero cristiano, il quale fu mantenuto dalla Chiesa cattolica in stretta connesione con la scolastica dell’Alto Medio Evo, non riusciva più a tener testa alle considerazioni “moderne”, sempre più chiudendosi e rivolgendosi disperatamente alle eterne intuizioni della filosofia classica (philosophia perennis). Essendo questi sviluppi internamente connessi con la perdita della rilevanza sociale, ovvero con il fenomeno di ciò che la Chiesa designa come “secolarizzazione”, non ci può stupire che nella Chiesa si sia insinuata un pò di nostalgia e qualche sospiro riguardo ai “buoni vecchi tempi”.

Ma è sempre possibile andare di male in peggio. Il tempo che abitiamo, che viene spesso definito come “postmoderno”, si sta rivelando una vera e propria apocalittica rivelazione della fine del mondo occidentale e dei suoi valori fondamentali. Se la modernità con l’emancipazione dell’uomo diminuì l’incidenza della visione del mondo cristiana – rimanendo tacitamente seguace ai valori dovuti proprio al cristianesimo – sembra che l’era postmoderna con la sua pluralità relativista e la sua non-obbligatorietà insinui la distruzione di tutti i valori e affermi il caos. Il Caos, il dis-ordine, è peggio di un “ordine” diverso, del quale fu portatrice la modernità (opponendolo all’“ordinamento” cristiano della realtà). Il dis-ordine, il non-ordine designa il governo del “no”, del negativo, del niente. L’era postmoderna sembra essere la vittoria del nichilismo, a dimostrazione dell’astuto ruolo del niente, che viene dimenticato proprio a causa della sua nullità, mentre in verità tutto è sottoposto al suo governo.

Questo è il motivo per cui il cristianesimo coltiva un ricordo nostalgico del passato e dimentica, che nella sua stessa essenza è fondato nel futuro. Dimentica che il modo d’essere fondamentale dell’esistenza cristiana è il futuro, che nel suo arrivare libera il presente. Proprio rispetto a questo futuro, che non è soltanto una negazione del presente (come “non-ancora” presente), ma è bensì la positività dell’arrivare, possiamo comprendere diversamente il momento storico presente. Forse l’epoca postmoderna possiede molto più spirito cristiano di quanto saremmo pronti a concedere.

1. Tratti generali dell’era postmoderna

Il concetto dell’era postmoderna che si ritrova nel vocabolario filosofico appena da due decenni, non è univoco, perciò tenteremo qui di riassumere le sue caratteristiche generali. La postmodernità designa innanzitutto l’era filosofica odierna nella sua differenza rispetto al pensiero moderno. Questo ci rinvia alla domanda riguardo la specificità del pensiero moderno. Diversamente dalla metafisica classica, dove l’uomo fa parte dell’ordine ontologico generale (o cosmo), l’uomo moderno diventa il fondamento di tutto – è l’unico “sub-iectum”, è quello che tutto sor-regge, che “giace-sotto a tutto” (sub-iacere), che tutto sostiene e fonda (il che viene rivelato anche dalla trasformazione di significato dal soggetto antico – hypokeimenon – al soggetto moderno puramente umano). Esempio paradigmatico di questo nuovo fondamento (anche nel senso di procedura formale del pensiero filosofico) è senz’altro Descartes con il suo (ego) “cogito”. Proprio il suo pensiero ci manifesta – attraverso la sua ricerca esistenziale di certezza – la pulsione interna del pensiero moderno: l’auto-fondazione. La possibilità di autofondazione è compresa come emancipazione etica, come atto liberatore, che permette all’uomo di giungere all’autonomia e alla sovranità. Allo stesso tempo però rivela l’uomo come fondatore – almeno come datore di senso – di tutto l’(ess)ente. Se il soggetto autofondato diviene il nuovo principio, il nuovo archè (principium), allora diviene necessaria l’inclusione dell’altro significato di questo termine metafisico: “governo”. Il soggetto moderno governa e sottomette la realtà. Questo può accadere in diversi modi: dalla incarnazione del pensiero nella realtà (che permea il razionalismo fino a Hegel) fino alla sottomissione empirico-scientifica (da Bacone fino allo sviluppo della scienza empirica matematizzata). L’idealismo tedesco esalta lo spirito umano che “sottomette” alla potenza del suo pensiero tanto la natura inferiore quanto la divinità superiore.
Se l’era postmoderna significa una cesura rispetto al pensiero moderno, allora l’eminente pensatore postmoderno è senz’altro Nietzsche. Come nessun altro rivelò la vera essenza del pensiero moderno (e di tutto il pensiero metafisico) nella sua tendenza a sottomettere (dominare) o, con il termine nietzscheano, nella sua “volontà di potenza”. Ma, Nietzsche va oltre. La volontà irrazionale vitale è quell’ultimo fondamento dell’uomo e della realtà, che toglie ogni illusione riguardo all’autofondazione, e dunque riguardo all’autonomia, alla sovranità, all’autopossesso del soggetto cartesiano. Piu’ che la morte di Dio è per Nietzsche forse fatidica la morte del soggetto (molto prima del sintagma di Foulcault). L’uomo di Nietzsche è un uomo condizionato, anche se è un superuomo – egli è condizionato e dominato dalla volontà di potenza, che poi viene da lui espressa in continuazione. Proprio a causa di questa ambiguità possiamo capire Nietzsche come colui che spezzò la tradizione metafisica, ma che allo stesso temo la portò al proprio vertice – rivelando al massimo grado il suo motore interno – la volontà di dominare (questa è la tesi di Heidegger). Il pensiero di Nietzsche delinea due caratteristiche fondamentali del pensiero postmoderno: la condiziona­tezza del soggetto (togliendo la possibilità di una autofondazione razionale) e conseguentemente la sfiducia nella conoscenza – come impossibilità di una unica ed obbligatoria comprensione della totalità (il che de facto designa la liquidazione di una razionalità unica ed integra). Secondo Nietzsche la ragione e la – a lei connessa – verità sono “prospettiche” – il che presenta il prototipo della pluralità potmoderna.
Il soggetto condizionato e la pluralità delle «razionalità» sono due tratti generali, che possono essere osservati nelle diverse correnti del pensiero contemporaneo. Come due esempi ci possono servire Wittgenstein e Heidegger. Il primo Wittgenstein può essere considerato come rappresentate tipico del paradigma filosofico moderno, in quanto cerca un linguaggio ideale (mathesis universalis), che possa esprimere in maniera univoca la realtà (compresa nel senso dei fatti atomici e le sue combinazioni). In tal modo presuppone una ed unica razionalità capace di rispecchiare il tutto della realtà (qui lasciamo a parte l’elemento mistico in Wittgenstein). Il secondo Wittgenstein invece effetua una svolta, che nella sua essenza riassume il passaggio verso il paradigma postmoderno. Il linguaggio non è più considerato come strumento del soggetto sovrano, con il quale egli puo denominare ed esprimere (ma anche comprendere e dominare) la realtà. Al contrario, linguaggio è quell’orizzonte, che precede il soggetto e dentro di quale il soggetto si costituisce come tale. Il linguaggio e legato ad una certa prassi umana ovvero ad una forma di vita (Lebensform, way of life), dove si stabilisce il significato. L’uomo si trova già inserito nel linguaggio ed è condizionato da esso, senza poter uscire fuori e costruire un linguaggio ideale universale. Non esistono significati ideali delle parole; essi sono fondati nella forma di vita rispettiva – che rende possibile la pluralità della significazione. In altri termini – i giochi linguistici (Sprachspiele, language-games) nel secondo Wittgenstein designano la «prospetticità» ovvero la pluralità di comprensione senza una razionalità comune ed unica. Perciò Wittgenstein rimane il modello del così detto «linguistic turn» nelle sue molteplici forme del ventesimo secolo (p.e. ordinary language philosophy).

Una simile struttura interna si può rintracciare anche nello sviluppo del pensiero di Heidegger e dell’ermeneutica. Ai suoi inizi, prima di elaborare il problema (sul senso) dell’essere, il punto di partenza di Heidegger rappresenta la vita (umana) nella sua fattualità, alla quale appartiene la comprensione (forse solo implicita) di se stessa. La vita concreta vissuta designa quel primo orizzonte, che precede ogni riflessione esplicita dell’uomo. Egli non ha nessun possibilità di mettersi fuori, di diventare spettatore «disinteressato» («unbeteiligter Beobachter» di Husserl) e così di «fondare» teoreticamente la sua vita, ovvero se stesso. Piu tardi l’orizzonte della vita viene sostituito dal quello (piu profondo) dell’essere, però la struttura non cambia. La comprensione dell’uomo rimane condizonata dalla fattualità, nella quale si svolge il suo essere (nel senso verbale), perciò ogni comprensione è prospettica e finita (laddove finitezza va compresa nel senso positivo). Comprensione non è altro che «interpreta­zione» della vita ossia «l’ermeneutica della fattualità». Lo sviluppo ulteriore dell’ermeneutica mette in rilievo il carattere provisorio della comprensione e l’impossibilità di un’interpretazione esclusiva (e di conseguenza della verità assoluta).

La deposizione del soggetto autofondante, in quanto condizionato, è un tratto osservabile in tanti altri pensatori del ventesimo secolo. Freud introduce l’inconscio, che condiziona la coscienza e la conoscenza. Su queste basi si fonda la psicoanalisi teorica di Lacan. Lo strutturalismo francese rivela il soggetto in quanto condizionato dalle strutture diverse. La decostruzione di Derrida disperde l’illusione dell’essere stabile e lo rivela (con la sua differance) come condizionato dall’alterità. La caratteristica generale sembra essere la rinuncia all’autofondazione del soggetto, la sua deposizione in quanto fondamento (e «padrone») della realtà. Questo implica sfiducia nel ruolo fondante della razionalità e l’apertura verso l’altro (rispetto all’io e alla sua conoscenza razionale) – l’«altro» diventa termine commune per quella «condizionatezza» del soggetto, che non può essere conquistata dall’io, che resiste alla conoscenza e sottomissione. La deposizione designa così spossessamento del soggetto.

2. Significato etico della «svolta» postmoderna.

Nello “spossessamento” postmoderno del soggetto possiamo individuare anche un profondo momento etico. Se comprendiamo l’eticità non in senso classico, cioè nell’antico significato di virtù etica (secondo il quale “virtus” significa nello stesso tempo forza – nel senso di capacità di autocontrollo e di perfezione dell’agire), bensì nel senso giudeo-cristiano dell’etica della relazione, secondo cui l’io fa posto all’altro e l’altro diventa primo, allora in questo caso la sostituzione del soggetto rappresenta la prima azione di rinuncia all’io, all’egoismo, azione che apre all’altro. Sicuramente questo non è l’unico momento, forse nemmeno quello preponderante della svolta postmoderna (che in più di qualcosa rimane ambi­gua a livello etico), tuttavia non possiamo ometterlo, anzi è giusto cercare di tematizzarlo.

Se l’uomo moderno è un soggetto autonomo e indipendente, che con la propria capacità di autofondazione è in un certo senso “causa sui” (a differenza del razionalismo moderno, secondo il quale questo termine indica Dio, l’antico “causa sui” è pensato per l’uomo in quanto è libera causa delle sue proprie azioni), successivamente la “condizionatezza” postmoderna rivela la radicale contingenza dell’uomo; detto in altri termini, rivela la sua finitezza. Tuttavia la contingenza postmoderna e la finitezza ad essa unita non sono comprese nel senso del pensiero scolastico (dove proprio la contingenza e la causalità metafisica rappresentano il nucleo, il centro della filosofia scolastica). Invece di attribuire un significato negativo alla contingenza e alla finitezza, il che presuppone una positiva (in senso speculativo) realta di necessità e infinità (che appartiene a Dio), il pensiero postmoderno desidera comprenderle in senso positivo. Così ad esempio in Heidegger la finitezza non è un limite dell’uomo (che presuppone l’ideale dell’infinito), ma la struttura, l’elemento costitutivo positivo della sua esistenza; cioe una capacità positiva, che rende l’uomo uomo. L’uomo nella sua essenziale finitezza non si comprende in rapporto all’ideale della infinitezza, ma nel rapporto verso il nulla. Per questo il nulla diventa il momento costitutivo per la positività dell’essere finito.

A motivo della comprensione positiva della finitezza e della contingenza (che deriva dalla rinuncia ad ogni idealismo) viene modificata la tradizionale valutazione degli “elementi” negativi del tempo e del nulla. Il tempo non è più il boia, che minaccia e distrugge l’essere esistente, ma l’originaria possibilità (“fare possibile”) dell’essere: è l’orizzonte positivo dell’essere (altrimenti sempre finito). Possibilità che è positiva proprio perché ha perso ogni relazione con l’infinito. Da qui deriva anche la scoperta del significato positivo della storia alla fine del diciannovesimo secolo. Allo stesso modo anche al “nulla” si attribuisce un ruolo positivo. Nella prospettiva idealistica il nulla è uno pseudo-concetto, è cioè l’estrema privazione dell’ideale in quanto misura dell’essere. Nel pensiero postmoderno, che è per sua natura antiidealistico (proprio perché “anti-metafisico”), il nulla è il momento costitutivo dell’essere finito: l’essere esiste solo in rapporto al nulla, “esiste” in quanto superamento del nulla, anche se alla fine non può mai oltrepassarlo (il che implica nello stesso tempo la definitività della morte). Considerato dal punto di vista dell’idealismo e della metafisica classica, il postmoderno è nihilismo. Come si sa invece Nietzsche e Heidegger ribaltano, capovolgono il rimprovero del nihilismo nella direzione opposta: secondo loro è la metafisica idealistica, proprio in quanto considera il vero ente nell’ideale speculativo, ad essere in realtà nihilismo; il nostro concreto essere finito, infatti, a confronto con l’ideale di perfezione e di infinità, non vale «nulla». Ad ogni modo i frequenti rimproveri, oggi spesso presenti, volti a sottolineare come l’attuale occuparsi del nulla favorisca uno spirito di rifiuto, di rinnegamento e allontanamento dai fondamenti della cultura e della fede, sono inopportuni e manifestano piuttosto l’incapacità di confrontarsi con la profonda domanda esistenziale.

La sospensione del soggetto autonomo valorizza positivamente anche il momento (formale) della passività nel pensiero postmoderno. Non passività nel senso di riduzione dell’attività, ma nel senso di “sopportazione”, di “subire l’azione da fuori”. Non è il soggetto ad essere il centro e il portatore di attività: esso subisce l’azione da parte dell’alterità. Esser condizionato (la condizionatezza) da parte dell’alterità è un altro nome per l’originaria passività del soggetto. Questo fatto ci aiuta a comprendere la “svolta” nel percorso filosofico di molti pensatori contemporanei, dai già menzionati Wittgenstein e Heidegger, a Husserl e Levinas. Proprio Levinas è quel pensatore che ha maggiormente tematizzato la dimensione etica del pensiero postmoderno. La sua originalità consiste nel fatto che spiega la postmoderna “alterità”, determinante e condizionante anticipatamente il soggetto, come “Altro”, cioè come altra persona. Il soggetto sospeso e rimosso viene condizionato (nella sua passività), da parte dell’Altro, che lo chiama a responsabilità, ad assumersi la responsabilità per l’Altro, ancora prima di ricostituirsi nella sua propria apparente libertà e autonomia. L’imperativo etico (come linguaggio originario dell’altro al di la delle parole pronunciate) è l’originaria “condizionatezza” etica. Proprio nel fatto che il soggetto non può mai assumerla e dominarla – l’io nei confronti dell’altro si trova in condizione di assoluta passività (il che significa essere chiamato ad una responsabilita senza limite e fine, quindi infinita) – si puo cercare il nuovo senso dell’infinito. Nella passività infinita – con il senso positivo in quanto illimitatezza della missione etica dell’uomo – Levinas indica una possibile risposta alla domanda dell’infinità, che, in quanto concetto idealistico, è assente nel pensiero postmoderno (con problematiche conseguenze etiche). Non va infatti a cercare l’infinito nell’ambito delle possibilità (potenza, attività) dell’uomo, come ad esempio nell’intelletto (nous) della metafisica classica, ma nell’ambito della passività – come infinita vocazione, come sovrabbondanza della parola (chiamata) dalla parte dell’altro, proprio perche a tutto questo l’uomo con le sue forze limitate non può mai rispondere convenientemente e definitivamente.

3. Il pensiero postmoderno e l’esistenza cristiana

Si pone la domanda, se nel paradigma postmoderno non si trovino piu tratti dell’«elemento» cristiano che nel pensiero filosofico moderno, malgrado il fatto che l’ultimo parli molto piu di Dio. Se vogliamo riflettere su di questo non basta rivolgersi alla sintesi medievale tra metafisica classica e la rivelazione. Ci vuole un ritorno alle fonti, all’origine del cristianesimo accompagnato con la domanda sulla specificità dell’esperienza cristiana. È evidente che il pensiero filosofico moderno è sottomesso alla critica tanto della prospettiva (della metafisica) classica quanto di quella postmoderno – come sopravvalutazione dell’uomo nel senso delle sue capacita (di ragione), come tentativo presuntuoso di fondare e dominare tutto (il che ancora oggi rimane nella scienza odierna, concepita all’inizio dell’era moderna). In questo tentativo la neoscolastica con buone ragioni riconobbe la problematica emancipazione dell’uomo che vuole marginalizzare Dio e prendere il suo posto. Perciò si insisteva sull’antica metafisica. Non si e comunque posta la questione, da dove provenga il pensiero moderno, dove si trovino le sue origini nel Medioevo. Qui non basta la risposta tradizionale, che vede la colpa nel nominalismo. Chiediamoci francamente: la sintesi scolastico-aristotelica è veramente la piu adeguata per l’articolazione filosofica dell’esistenza cristiana, del suo etos e della sua visione del mondo? Non si puo riconoscere nella tendenza di fornire le prove ed ottenere la certezza di aver sottomesso la realtà (qui si situa anche la voglia di assicurarsi Dio come concetto supremo della ragione) l’espressione di un desiderio di dominazione? E dell’incapacità di accettare l’insicurezza radicale dell’esistenza umana, che però resta indispensabile per l’atto di fede e di fiducia, con il quale l’uomo si puo aprire alla parola divina?
La deposizione (e «spossessamento») postmoderna del soggetto rende possibile un’esperienza della contingenza radicale. L’uomo non puo fondare se stesso e cozza contro i suoi limiti insuperabili. Perfino la sua ragione e la razionalità come tali sono finite (limitate) – in una maniera essenziale. Di conseguenza è sempre finita (cioè mai assoluta) anche quella verità, che si trova nelle capacità e alla portata dell’uomo. I limiti del soggetto (l’io) aprono tuttavia lo spazio per l’altro, per l’«alterità», per la trascendenza assoluta. Non e una conseguenza necessaria che il soggetto deposto e espropriato si apra alla trascendenza, ma è comunque una possibilità fondamentale. Si tratta dello sperimentarsi nella propria contingenza, che è stato sempre un momento decisivo nel termine classico di «creatura», e rappresenta la base dell’esperienza religiosa. Solo che nella scolastica la ragione supera l’esperienza di contingenza e di condizionatezza per mezzo della speculazione e deduce cosi una causa prima ovvero un ente supremo (Dio), che diventa un concetto della mente. Sebbene la scolastica non cessi di ribadire l’inconoscibilità di Dio, allo stesso tempo cerca di definirlo con le categorie filosofiche. In questo modo si perde l’alterità assoluta (totaliter aliter) e la trascendenza di Dio. L’esperienza postmoderna invece non permette al soggetto, cioe alla sua ragione, di oltrepassare i limiti definitivi e portarsi fuori dalla sua condizionatezza radicale. Perciò l’esperienza della contingenza significa l’esperienza della passività (insuperabile). Il pensiero religioso postmoderno si articola nel passivo (grammaticale) – l’uomo si «trova» nella vita e sperimaneta la sua esistenza come condizonata, data, donata, senza poter superare lo stato passivo originario con l’attività del conoscere, senza poter cogliere l’aldilà, responsabile per la sua «inquietudine». In altre parole, la passività originaria del soggetto non puo essere mai trasformata nella sua attività. Lo spossessamento non lascia nessuna possibilità di recupero o di nouva (auto)possessione.
Dal punto di vista della contingenza radicale il pensiero postmoderno si mostra piu vicino al sentimento esistenziale cristiano, che riceve il suo fondamento da fuori di sé e può essere riassunto con le parole di s. Paolo: «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto» (1 Cor 4, 7b). L’esistenza cristiana si svolge come una risposta continua alla parola (al rivolgersi) di Dio, che viene d’al-di-la, che oltrepassa tutto il conosciuto e il conoscibile e che non può mai diventare l’oggetto della (sola) logica umana, oppure il possesso della sua ragione. Perciò il rapporto con la trascendenza si chiama «fede» (in opposizione alla certezza, che si basa sullo stesso soggetto). Da questo rapporto scaturisce anche la comprensione specifica cristiana del tempo: l’entrata inspiegabile della trascendenza nel tempo –in quanto l’evento nella storia (la storia della salvezza con il suo apice in Cristo) – apre una nouva relazione verso il futuro, apertura per la promessa egualmente incomprensibile (in quanto «a-venire», che fonda il futuro), alla quale corrisponde l’atteggiamento cristiano di speranza. Il cercare la certezza ovvero la sicurezza (anche sotto la forma delle prove razionali per contenuti trascendenti) designa un’atto di sfiducia nel rapporto vissuto e si presenta come diametralmente opposta all’esistenza cristiana.
Si deve tuttavia ammettere, che il pensiero postmoderno porta in se una ambiguità appartenente alla sua essenza. L’esperienza della finitezza radicale può aprire l’uomo verso il mistero della trascendenza, lo puo però anche chiudere in se stesso – dato che il pensiero postmoderno nella sua opposizione alla metafisica idealista ha sciolto ogni legame con l’infinito. Nel regno del finito non c’e piu l’imperativo etico infinito; l’etica è lasciata alla libertà, intesa però nel senso di arbitrio. La svolta postmoderna può anche significare l’esperienza dell’«esser-gettato-nel-mondo» («Geworfenheit» di Heidegger), l’abbandono, l’assenza di misura e senso, la condanna alla libertà (sempre limitata e finita). Tutto questo può condurre alla rassegnazione, perfino al comportamento destruttivo e profondamente non-etico. Non si puo comunque non vedere in questa ambiguità postmoderna l’uomo spogliato all’estremo della sua umanità, nella sua libertà abissale (cio che Pascal descrive come «ni bete ni ange») – non è questo lo specchio della sua verità?

4. Pensare con i pressupposti postmoderni

Quali possono essere gli impulsi che provengono dal pensiero postmoderno per l’attuale riflessione cristiana? La filosofia cristiana deve dapprima rinunciare alla sua pretesa di esclusività ed universalità, che è stato un tratto fondamentale della filosofia scolastica. La questione rimane, se il pensiero cristiano possa accettare la «deposizione» della ragione nel senso d’una sola razionalità. Per illustrare con un esempio: la scolastica è convinta, che il principio della causalità metafisica sia universalmente valido e cosi anche la prova dell’esistenza di Dio. Perciò ogni essere razionale sarebbe costretto ad accettarlo. Ciònonostante la situazione di fatto è diversa. È vero che i fatti non possono mettere in dubbio la logica, però rimane la questione, se la gente, che non accetta le prove metafisiche, sia irrazionale o irragionevole. Se comunque accettiamo il presupposto postmoderno della ragione finita, dobbiamo accettare la pluralità delle interpretazioni ed anche con i limiti della nostra propria verità. Questa situazione può essere chiamata ermeneutica (nel senso ampio – che non risale ad un certo pensatore) ossia la situazione della ragione «debole» (con l’allusione a Vattimo). Assodato questo, il pensiero cristiano non puo esigere l’esclusività, anche se nella prospettiva interna il cristiano accetta la rivelazione come l’unica verità salvifica e si affida alla sua certezza.
Prendendo sul serio la situazione ermeneutica aumenta l’importanza della rivelazione e della fede. «La ragione debole» deve rinunciare al suo compito apologetico, che sta(va) nel cuore della teologia naturale (prove razionali per l’esistenza di Dio). Oggi la teologia naturale può diventare propedeutica all’esperienza della propria contingenza (nel senso positivo della contingenza) come esperienza del dono (in questa direzione va il pensiero di J.-L. Marion). Non si tratta in prima linea dell’argomentazione speculativa, che condurebbe verso la causa all’origine del dono (il Donatore), bensi della fenomenologia – l’analisi fenomenologica – della donazione (nello stato di passività), che fa sorgere la sensibilità per la trascendenza, preparando cosi lo «spazio» per il Donatore che si manifesta nel dono. L’ermeneutica della donazione (conscia dei suoi limiti metodologici e senza richiedere l’esclusività della sua interpretazione) non prova Dio, ma soltanto apre l’uomo ad una possibile esperienza religiosa, affinché egli possa essere «l’uditore della parola»; ad un’apertura verso l’incomprensibile trascendenza, che non puo essere raggiunta tranne nel caso in cui essa si autocommunichi in un atto di pura gratuità.
Quando però si e colpiti da questa parola – il cristianesimo è la vita, che sorge dalla parola di Dio ossia dalla rivelazione – la nuova verità (divina) non puo contraddire la ragione, perchè la ragione postmoderna è conscia dei suoi limiti. Questo momento è importante per il pensiero cristiano contemporaneo, che non ha bisogno di essere apologetico e di armonizzare la rivelazione con la razionalità (apparente universale). La razionalità, la ragionevolezza della fede, diviene l’esigenza interna dell’esistenza cristiana nella sua integralità. L’esistenza vissuta è anche l’unico criterio della razionalità della fede. In questa prospettiva ci voule però una rinuncia alla razionalità universale, dove gli argomenti rivendicherebbero un assenso incondizionato e potrebbero svolgere un compito di persuasione o quasi missionario. L’unico modo di comunicare la visione cristiana della vita si realizza per mezzo della partecipazione all’esperienza integrale dell’esistenza cristiana e della sua propria razionalità.
La sfida postmoderna fondamentale per il pensiero cristiano non è in prima linea il dialogo «esterno» con le visioni del mondo dominanti nel nostro tempo, non e apologia delle verita cristiane contra «gentiles», che presupporrebbero una base razionale comune. La pluralità dell’epoca postmoderna incita il cristianesimo ad approfondire all’interno di se stesso la comprensione delle sue radici, di cercare nella fedeltà alle origini la sua specifica e propria «razionalità» – nel senso integrale della vita. La ricerca della propria identità include il compito di discernere tra i tratti essenziali del cristianesimo e gli «accidenti» storici. Cosi l’identità approfondita, senza pretesa di universalità, può essere la risposta cristiana ai segni dei tempi postmoderni.

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