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Il Patrimonio dei Padri del Deserto

 

«Il Patrimonio dei Padri del Deserto»

Salvare il patrimonio monastico nell’Egitto di oggi

 

Un anziano ha detto: «L’oblio è la radice di tutti i mali».

Da I Detti dei Padri del Deserto

 

Lo stato precario dell’eredità dei ‘Padri del Deserto’

Con le esplosioni che si succedono nel sito di Palmira, perla della Siria e patrimonio dell’umanità, il massacro dei siti preislamici da parte dello Stato islamico non smette di distruggere, pezzo dopo pezzo, tracce della nostra storia. E infatti gli attacchi dello Stato islamico puntano alla cultura, a cancellare la memoria che queste meravigliose opere rappresentano. In un’ideologia di distruzione mirata, la minaccia riguarda tutti i monumenti preislamici del Vicino Oriente, non da ultimi i numerosi ricchi monumenti preislamici in Egitto, dove la cellula dei terroristi islamici del Sinai guadagna potere. Per una parte importante di questo patrimonio storico-culturale si potrebbe arrivare presto al punto di non ritorno.

I siti archeologici in Egitto sfuggono al pieno controllo da parte dello Stato; il caos generato dalle rivolte del 2011 riguarda anche il territorio: da una parte il turismo ha subito gravissime perdite, dall’altra l’attenzione del governo si sposta inevitabilmente verso altre questioni. In un Egitto che fatica a mantenere la sicurezza nazionale, la tutela dei siti archeologici, soprattutto quelli in stato di semi-abbandono o ancora non completamente portati alla luce, non è considerata di primaria importanza. Solo di recente, per esempio, è stato pensato un vasto piano di ristrutturazione e rinnovamento della centralissima Vecchia Cairo, con i suoi famosi palazzi islamici e copti. In questo contesto, le storiche tradizioni eremitiche del deserto egiziano, che da sempre hanno trovato rifugio nei luoghi più isolati, sembrano essere l’ultima preoccupazione del governo.

Il progetto «Il Patrimonio dei Padri del Deserto» nasce proprio per preservare e studiare questo patrimonio a rischio; in particolare, esso intende mappare e fotografare i luoghi di eremitaggio del deserto attorno ai monasteri dell’Egitto e del Sudan (gli antichi Regni Nubiani), oltre a studiare le tradizione eremitiche antiche e moderne sotto i diversi aspetti psicologico, teologico e filosofico. L’obiettivo primario è la sensibilizzazione ai pericoli e allo stato di deterioramento che purtroppo interessano questo patrimonio.

 

Come si rovina il patrimonio?

Sono varie le cause che portano alla rovina dei siti archeologici cristiani in Egitto. Spesso si tratta di atti vandalici, in altri casi invece di una mancanza di consapevolezza del valore dei resti archeologici e a danneggiare i monumenti può essere chiunque. Per esempio, è frequente trovare incisioni fatte inequivocabilmente da beduini su rocce con dipinti paleolitici.  Il valore di questi dipinti non viene ben compreso da questi abitanti del deserto, che altrimenti li proteggerebbero, se non altro per farne un’attrazione turistica.

Abu Darag, per esempio, è un importante sito monastico a Sud di Suez. L’ultima documentazione del sito risale al 2008 ed è stata effettuata dall’IFAO (Istituto Francese di Archeologia Orientale).[1] La relazione descrive un riparo nelle rocce utilizzato da anacoreti e tre strutture in pietra di cui due servite da abitazione e la terza probabilmente da oratorio e vestibolo. Un altro eremo è situato in una cavità vicina decorata con graffiti, dipinti ed altri elementi. Un quarto settore era appena stato scoperto: alla stessa altezza dell’eremo, e probabilmente in passato legato a quest’ultimo da un sentiero, altre cavità rocciose erano state utilizzate come abitazioni temporanee, verosimilmente eremi. Secondo la relazione del 2008, Abu Darag risulta essere, quindi, un sito monastico di fondamentale rilevanza. Oggi però gran parte di esso appartiene solo al passato. La missione del «Patrimonio dei Padri del Deserto» dello scorso luglio ha preso atto di come i lavori della nuova autostrada Suez-Hurghada, che passerà proprio in mezzo al sito archeologico, lasceranno del sito solo un ricordo nelle incomplete documentazioni archeologiche.

Un altro sito monastico di grande valore, ma largamente rovinato perché non si tutela abbastanza è il Dayr Qubbat al-Hawa, nel profondo Sud egiziano. Si tratta di un dayr (monastero) non molto distante da Assuan, l’antica Syene, storica città di confine con i Regni Cristiani della Nubia. Salendo in cima ad una collina desertica a ridosso del Nilo, dominata da una costruzione a cupola, chiamata qubbat al-hawa (cupola del vento), ci si trova davanti alle tombe dell’Antico Regno tra le quali il monastero prende posto. In alcune di esse si possono vedere dei simboli del Cristianesimo, come croci, firme in copto o figure di uomini a cavallo rappresentanti con tutta probabilità san Giorgio. I resti di una chiesa conservano parte di un’abside pregevolmente affrescata; sul registro più alto il busto di Cristo è racchiuso in una mandorla sorretta da sei angeli, mentre in quello inferiore i dodici apostoli circondano la Vergine. La particolarità degli affreschi si trova a fianco, alla destra dell’abside; qui sono dipinti sei santi. Cinque di questi hanno un’aureola quadrata, mentre solo uno porta la classica aureola tonda. Probabilmente questo eccezionale simbolismo vuole segnalare che cinque delle sei figure erano ancora in vita durante la composizione dell’opera. L’originalità del dipinto lascia a bocca aperta. Ma ciò che meraviglia di più è che mentre per visitare le tombe faraoniche – ormai vuote ma – ampiamente decorate serve l’accompagnamento del custode munito di chiave per aprire le grate di ferro che le proteggono, la chiesa e le tombe un tempo utilizzate dagli eremiti sono aperte e abbandonate alle intemperie, rovinate da erosione, inquinamento, escrementi di uccelli e atti vandalici. È all’interno di queste che si riposano e bivaccano i poliziotti di guardia al sito.

Problemi simili si riscontrano con i siti monastici tuttora in uso: posti storici come il Monastero di San Paolo di Tebe o il Monastero di Sant’Antonio Abate, conosciuto anche come Sant’Antonio del Deserto, risentono delle stesse infelici sorti. Ci si aspetta che un luogo di culto, a maggior ragione un monastero collocato nel deserto orientale, lontano dalle grandi città, debba essere un posto di pace e serenità e che i monaci copti se ne prendano cura. Invece, nell’ampio spazio ricavato attorno al Monastero di Sant’Antonio, per esempio, i visitatori arrivano in autobus stracolmi provenienti dalla vicina località balneare di Hurghada, sul Mar Rosso, si ammassano nella piazza principale, un tempo sede di eremi e ora pullulante di negozi di souvenir, e poi, forse e velocemente, si recano alla grotta dove il santo ha dimorato. La scalinata che percorre la parete rocciosa fino all’antico eremo è rumorosa e affollata, per cui l’ascesa al luogo sacro si riduce a una passeggiata chiassosa. D’altronde, lo spiazzo davanti al monastero è stato volutamente reso enorme per accogliere gli autobus e i negozi dove prima c’erano gli eremi, creando così un business della religione a discapito delle tracce storiche e del silenzio del monastero, della sua sacralità e della sua bellezza di luogo un tempo inviolato.

Stesse sorti toccano all’importante sito monastico di Wadi Natrun, nel deserto di Scete, a circa 90 km dal Cairo, sul lato occidentale della via del deserto verso Alessandria. I quattro grandi e antichi monasteri di San Baramus, San Bishoi, San Macario e dei Siriani sono tutti autosufficienti e particolarmente attivi. Con le maggiori attenzioni che il sito riceve da parte della comunità copta, esso è in continua espansione. Ne consegue che, per rispondere ai crescenti bisogni del monastero ed incrementare il turismo religioso, aree che un tempo erano desertiche, come Kellia, sono ora coltivate; moderne costruzioni sorgono ovunque, anche nei posti storici attorno ai monasteri e sulle antiche rovine. Da una parte il monastero si espande e si intraprendono lavori archeologici e scavi, dall’altra il sostentamento e l’alloggio degli operai, così come quello dei religiosi, porta proprio alla rovina dei siti.

Anche l’importante Monastero di Anba Hadra ad Assuan è vittima dello stesso triste destino. L’immenso monastero è soggetto ad intemperie e ad atti di vandalismo che neppure le alte mura che ancora lo proteggono sono in grado di fermare. Un crimine contro questo magnifico antico complesso e i gli splendidi affreschi nell’abside della sua chiesa principale. Ma ciò che più rende perplessi è che, a pochi metri di distanza, si erge un nuovo monastero, stagliandosi bianco contro il paesaggio di sabbia e cielo. Esso è fornito di hotel e di un’ulteriore terza chiesa in costruzione. La diocesi di Assuan investe nel sito, ma catalizza le sue attenzioni sulla costruzione di questo nuovo plesso. Così fondi e interesse tralasciano o, peggio, rovinano l’antico. Le nuove, immense mura bianche sfigurano accanto alle maestose rovine del monastero storico, grandioso eppure in perfetta armonia con il paesaggio e, di rimando, rubano la scena a quello che meriterebbe di essere il solo protagonista della collina e che invece perde progressivamente parte della sua gloria.

Tutt’altro che maestosa, ma altrettanto splendida, è la Grotta di Maria (Ghurfatu Mariam), un tempo eremo, in cima al Gebel al-Tayr, immensa montagna nella regione delle oasi del Sud-Ovest dell’Egitto, fra Dakhla e Kharga. Per visitare la grotta, ci si avvale dell’accompagnamento della ‘guida’, il proprietario del terreno adiacente al sito che si è incaricato di far accedere i visitatori solo con la sua presenza. Egli spiega che il nome della montagna, letteralmente “Montagna del Volatile” viene da una leggenda lunga secoli: pare che degli uccelli volteggino sulla sommità del monte desertico procurandosi in modo misterioso acqua e cibo. Davanti a una parete rocciosa, ci si trova di fronte a magnifici graffiti preistorici e egizi e scritte in copto che si affiancano in un confuso collage sul quale spiccano gli scarabocchi in arabo del secolo scorso. Salendo verso la grotta, a fare da guardia all’imbocco si ritrovano solo gli uccelli misteriosi. La grotta è così isolata che sembrerebbe che solo essi e il vento arrivino ormai quassù, in cima alla montagna. All’interno, una vistosa lunga preghiera in copto, in tre sgargianti sfumature che vanno dal giallo al rosso, copre una vasta porzione della parete di sinistra. Di fronte si intravede una sagoma di persona che regge qualcosa. Certo, a ben guardare, si capisce: si tratta di una raffigurazione della Madonna con in braccio il Bambino; è la Maria da cui la grotta trae il nome. Proprio il volto della Madonna e del Bambino sono rovinati, di proposito. Anche qui, innumerevoli scritte recenti in arabo con nomi propri (musulmani) e date si sovrappongono ai dipinti storici e porzioni di roccia con graffiti copti sono state asportate, in uno scempio irreversibile. Dopo la tradizionale donazione del baqshìsh (mancia), la ‘guida’ offre un po’ della sua frutta, che non basta a togliere l’amaro in bocca.

 

Innanzitutto tutela. Le sfide del «Patrimonio dei Padri del Deserto»

Gli atti vandalici sono volti allo sfregio fine a se stesso; probabilmente, soprattutto da parte di musulmani, poiché il patrimonio copto non è sempre sentito come bene proprio, comune, egiziano. Ma risulta chiaro che nemmeno il governo o gli stessi monaci pare si rendano conto del valore di questo patrimonio. Questo è uno degli aspetti più amari della grave realtà a cui deve far fronte il progetto: manca una consapevolezza rispetto alla ricchezza costituita dal patrimonio, anche da parte delle comunità che vi vivono accanto. In un momento così delicato di formazione delle coscienze, è essenziale per l’Egitto integrare nella percezione del proprio passato questa tradizione antica, ricca e condivisa, non solo tra copti, ma anche con i musulmani, che hanno le stesse origini storiche preislamiche. La sensibilizzazione sull’esistenza del patrimonio dei ‘Padri del Deserto’, che è in pericolo, serve proprio a far fronte alla mancanza di consapevolezza del suo valore.

In questo senso, il progetto intraprende varie azioni che coinvolgono innanzitutto le comunità che vivono accanto ai siti, ma anche tutti gli Egiziani (i giovani, in particolare) e poi le comunità monastiche, affinché contribuiscano agli obiettivi del progetto, e la società copta, perché contribuisca con il suo aiuto e la sua partecipazione. La pagina Facebook del progetto “The Heritage of the Desert Fathers”, ad esempio, con l’immancabile attività quotidiana de “la Foto del giorno”, trasporta ogni giorno centinaia di interessati nei meravigliosi luoghi del monachesimo egiziano, tenendo vivo l’interesse per la questione.

E la tutela dei siti monastici in Egitto non riguarda certo solo gli Egiziani: le origini del Cristianesimo sono un prezioso patrimonio mondiale. Se si pensa quanto i cristiani venerino sant’Antonio Abate, il Santo del Deserto la cui influenza affonda persino nelle antiche tradizioni popolari, si capisce quanto quello dei ‘Padri del Deserto’ sia un mondo a noi vicino, anzi faccia parte della nostra cultura e della nostra Storia; e questo a prescindere dalla situazione religiosa, politica, ed economica attuale dell’Egitto. È per questo che il progetto si impegna anche ad iscrivere gli eremi dei ‘Padri del Deserto’ alla nomina di siti del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO.

 

Documentazione dei siti e studio della tradizione

Altro compito del progetto è un’urgente e puntuale documentazione dei siti. Lo Stato islamico, infatti, ha già un impatto grave sul patrimonio culturale egiziano. L’attentato al consolato italiano dell’11 luglio 2015, nel cuore del Cairo, ne è una prova. Avvenuto alle 6:30 di un sabato mattina, quando il palazzo era ancora chiuso, l’attentato ha causato la morte del poliziotto di guardia e il crollo di gran parte dell’edificio. Il giorno stesso, molti (Egiziani) lamentavano la perdita di un palazzo storico stupendo, un bene andato distrutto, a prescindere dal suo utilizzo come consolato italiano. Anche l’archeologia egiziana risente delle azioni del ramo locale dello Stato islamico. Per esempio, a seguito dell’uccisione dell’ostaggio croato da parte della Provincia del Sinai, molti scavi nel deserto egiziano sono stati interrotti. I siti cristiani sono doppiamente a rischio per la minaccia IS: fanno spesso parte dei siti egizi, in pericolo in quanto preislamici, e in più rappresentano un bersaglio in sé, ma senza godere della stessa attenzione e protezione dei siti faraonici.

Le difficoltà legate alla tutela e alla documentazione dei siti monastici in Egitto sono quindi di varia natura. Anche la loro dislocazione rende le ricerche isolate. Gli studiosi si focalizzano perlopiù su uno o qualche singolo sito, perdendo di vista il panorama globale della vita monastica degli albori. Per questo un obiettivo prioritario del progetto è la creazione di una mappa. La mappa sarebbe il risultato di un’indagine sistematica delle lontane aree dell’Alto Egitto, del Deserto Orientale, delle Oasi Occidentali e degli antichi Regni Nubiani (attuale Sudan) per ricostruire le reti e le migrazioni che hanno coinvolto queste tradizioni e la loro influenza reciproca all’interno dell’Egitto, con la Nubia e l’Etiopia. Una volta stabilite le coordinate dei posti, sarà possibile raccogliere una serie di informazioni a vari livelli. Esse comprenderanno le notizie sul singolo eremo e sulla rete di eremi ai quali si collegava. Il progetto intende mettere le carte a disposizione della comunità dei ricercatori e degli interessati di ogni disciplina.

Prendendo in conto l’insieme dei monasteri e degli eremi sarà possibile studiare il patrimonio nella sua interezza e esaminare anche altri aspetti più profondi che lo riguardano, come l’aspetto spirituale. I metodi e le tecniche dei ‘Padri del Deserto’ sono paragonabili ad altre tradizioni spirituali, come le pratiche yoga, le tradizioni sufiche, l’attenta e piena consapevolezza sati e altre pratiche buddiste meditative per calmare le passioni e distaccarsi dai sentimenti esteriori e dai pensieri per raggiungere una visione globale del paesaggio psicologico in cammino verso la percezione suprema, l’unione con Dio (unio mystica). Su questo cammino, gli eremiti aspirano al distacco e alla profonda decostruzione di livelli periferici del sé, che potrebbero costituire potenziali ostacoli, pericoli e distrazioni potendo così tornare a un’essenziale esperienza del sé, che teoricamente costituisce la base delle esperienze mistiche nel Cristianesimo e in altre tradizioni spirituali. Detti e le testimonianze dei ‘Padri del Deserto’ sono particolarmente interessanti, poiché non partono da considerazioni teoretiche, ma da esperienze pratiche, ascetiche e dalle profonda osservazione delle condizioni mentali, di emozioni e stati d’animo, fantasie, sogni e visioni. Le pratiche sono particolarmente attente ad ostacoli, pericoli e distrazioni del cammino spirituale e possono essere comparate all’analogo processo psicoterapeutico.

Strategie e tecniche usate nella guida spirituale fornita dai ‘Padri del Deserto’ possono ispirare la psicoterapia ed essere particolarmente rilevanti per sostenere le ricerche creative e spirituali dei pazienti, spesso trascurate o incomprese nelle forme classiche di psicoterapia. Esse sono preziose e persino cruciali per la riconnessione con le fonti profonde della guarigione, la capacità di recupero e la speranza. Ed è questo interessante aspetto dell’eredità dei ‘Padri del Deserto’ il secondo ambito di ricerca in programma. (Cfr. http://desert-fathers.com/articles/scientific-articles/the-sayings-of-the-desert-fathers-and-the-question-of-self-a-general-outline-by-borut-skodlar-jan-ciglenecki/)

Il progetto suscita l’interesse della comunità scientifica: vari ricercatori da tutto il mondo lo stimano e forniscono il loro aiuto. Molti copti esprimono il loro apprezzamento informale, tramite e-mail. Altri, nel mondo, seguono il progetto attraverso la pagina Facebook. Spesso, gli stessi ricercatori forniscono spontaneamente il loro contributo. Ma un’attenzione verso «Il Patrimonio dei Padri del Deserto» è manifestata anche da parte di appassionati di cultura copta e gente comune. Egiziani, cristiani, curiosi in giro per il mondo: tutti vedono questo patrimonio come proprio e da salvare. Perché l’eredità dei ‘Padri del Deserto’ è un patrimonio nostro che, se messo in valore, preservato e studiato, ci può parlare e aiutare nel presente, un passato tangibile che, se perso, è cancellato per sempre, per tutti.

Contribuite anche voi a far conoscere e preservare il patrimonio dei ‘Padri del Deserto’. Potete visitare il sito web per maggiori informazioni sul progetto (www.desert-fathers.com) e su come fornire un supporto finanziario e la sua pagina Facebook “The Heritage of the Desert Fathers”.

 

Daniela Potenza

Laureata in Lingue, Storie e Culture del Mediterraneo e dei Paesi Islamici presso l’Università L’Orientale di Napoli, Daniela Potenza è dottoranda in Letteratura Araba presso l’Università INALCO di Parigi, in co-tutela con L’Orientale. Effettua parte della sua ricerca al Cairo e a Tunisi.



[1] Cfr. V. Ghica, S. Marchand e A. Marangou, «Les ermitages d’Abū Daraǧ revisités» in BIFAO 108 (2008), pp. 115-163.

Il Patrimonio dei Padri del Deserto

 

«Il Patrimonio dei Padri del Deserto»

Salvare il patrimonio monastico nell’Egitto di oggi

 

Un anziano ha detto: «L’oblio è la radice di tutti i mali».

Da I Detti dei Padri del Deserto

 

Lo stato precario dell’eredità dei ‘Padri del Deserto’

Con le esplosioni che si succedono nel sito di Palmira, perla della Siria e patrimonio dell’umanità, il massacro dei siti preislamici da parte dello Stato islamico non smette di distruggere, pezzo dopo pezzo, tracce della nostra storia. E infatti gli attacchi dello Stato islamico puntano alla cultura, a cancellare la memoria che queste meravigliose opere rappresentano. In un’ideologia di distruzione mirata, la minaccia riguarda tutti i monumenti preislamici del Vicino Oriente, non da ultimi i numerosi ricchi monumenti preislamici in Egitto, dove la cellula dei terroristi islamici del Sinai guadagna potere. Per una parte importante di questo patrimonio storico-culturale si potrebbe arrivare presto al punto di non ritorno.

I siti archeologici in Egitto sfuggono al pieno controllo da parte dello Stato; il caos generato dalle rivolte del 2011 riguarda anche il territorio: da una parte il turismo ha subito gravissime perdite, dall’altra l’attenzione del governo si sposta inevitabilmente verso altre questioni. In un Egitto che fatica a mantenere la sicurezza nazionale, la tutela dei siti archeologici, soprattutto quelli in stato di semi-abbandono o ancora non completamente portati alla luce, non è considerata di primaria importanza. Solo di recente, per esempio, è stato pensato un vasto piano di ristrutturazione e rinnovamento della centralissima Vecchia Cairo, con i suoi famosi palazzi islamici e copti. In questo contesto, le storiche tradizioni eremitiche del deserto egiziano, che da sempre hanno trovato rifugio nei luoghi più isolati, sembrano essere l’ultima preoccupazione del governo.

Il progetto «Il Patrimonio dei Padri del Deserto» nasce proprio per preservare e studiare questo patrimonio a rischio; in particolare, esso intende mappare e fotografare i luoghi di eremitaggio del deserto attorno ai monasteri dell’Egitto e del Sudan (gli antichi Regni Nubiani), oltre a studiare le tradizione eremitiche antiche e moderne sotto i diversi aspetti psicologico, teologico e filosofico. L’obiettivo primario è la sensibilizzazione ai pericoli e allo stato di deterioramento che purtroppo interessano questo patrimonio.

 

Come si rovina il patrimonio?

Sono varie le cause che portano alla rovina dei siti archeologici cristiani in Egitto. Spesso si tratta di atti vandalici, in altri casi invece di una mancanza di consapevolezza del valore dei resti archeologici e a danneggiare i monumenti può essere chiunque. Per esempio, è frequente trovare incisioni fatte inequivocabilmente da beduini su rocce con dipinti paleolitici.  Il valore di questi dipinti non viene ben compreso da questi abitanti del deserto, che altrimenti li proteggerebbero, se non altro per farne un’attrazione turistica.

Abu Darag, per esempio, è un importante sito monastico a Sud di Suez. L’ultima documentazione del sito risale al 2008 ed è stata effettuata dall’IFAO (Istituto Francese di Archeologia Orientale).[1] La relazione descrive un riparo nelle rocce utilizzato da anacoreti e tre strutture in pietra di cui due servite da abitazione e la terza probabilmente da oratorio e vestibolo. Un altro eremo è situato in una cavità vicina decorata con graffiti, dipinti ed altri elementi. Un quarto settore era appena stato scoperto: alla stessa altezza dell’eremo, e probabilmente in passato legato a quest’ultimo da un sentiero, altre cavità rocciose erano state utilizzate come abitazioni temporanee, verosimilmente eremi. Secondo la relazione del 2008, Abu Darag risulta essere, quindi, un sito monastico di fondamentale rilevanza. Oggi però gran parte di esso appartiene solo al passato. La missione del «Patrimonio dei Padri del Deserto» dello scorso luglio ha preso atto di come i lavori della nuova autostrada Suez-Hurghada, che passerà proprio in mezzo al sito archeologico, lasceranno del sito solo un ricordo nelle incomplete documentazioni archeologiche.

Un altro sito monastico di grande valore, ma largamente rovinato perché non si tutela abbastanza è il Dayr Qubbat al-Hawa, nel profondo Sud egiziano. Si tratta di un dayr (monastero) non molto distante da Assuan, l’antica Syene, storica città di confine con i Regni Cristiani della Nubia. Salendo in cima ad una collina desertica a ridosso del Nilo, dominata da una costruzione a cupola, chiamata qubbat al-hawa (cupola del vento), ci si trova davanti alle tombe dell’Antico Regno tra le quali il monastero prende posto. In alcune di esse si possono vedere dei simboli del Cristianesimo, come croci, firme in copto o figure di uomini a cavallo rappresentanti con tutta probabilità san Giorgio. I resti di una chiesa conservano parte di un’abside pregevolmente affrescata; sul registro più alto il busto di Cristo è racchiuso in una mandorla sorretta da sei angeli, mentre in quello inferiore i dodici apostoli circondano la Vergine. La particolarità degli affreschi si trova a fianco, alla destra dell’abside; qui sono dipinti sei santi. Cinque di questi hanno un’aureola quadrata, mentre solo uno porta la classica aureola tonda. Probabilmente questo eccezionale simbolismo vuole segnalare che cinque delle sei figure erano ancora in vita durante la composizione dell’opera. L’originalità del dipinto lascia a bocca aperta. Ma ciò che meraviglia di più è che mentre per visitare le tombe faraoniche – ormai vuote ma – ampiamente decorate serve l’accompagnamento del custode munito di chiave per aprire le grate di ferro che le proteggono, la chiesa e le tombe un tempo utilizzate dagli eremiti sono aperte e abbandonate alle intemperie, rovinate da erosione, inquinamento, escrementi di uccelli e atti vandalici. È all’interno di queste che si riposano e bivaccano i poliziotti di guardia al sito.

Problemi simili si riscontrano con i siti monastici tuttora in uso: posti storici come il Monastero di San Paolo di Tebe o il Monastero di Sant’Antonio Abate, conosciuto anche come Sant’Antonio del Deserto, risentono delle stesse infelici sorti. Ci si aspetta che un luogo di culto, a maggior ragione un monastero collocato nel deserto orientale, lontano dalle grandi città, debba essere un posto di pace e serenità e che i monaci copti se ne prendano cura. Invece, nell’ampio spazio ricavato attorno al Monastero di Sant’Antonio, per esempio, i visitatori arrivano in autobus stracolmi provenienti dalla vicina località balneare di Hurghada, sul Mar Rosso, si ammassano nella piazza principale, un tempo sede di eremi e ora pullulante di negozi di souvenir, e poi, forse e velocemente, si recano alla grotta dove il santo ha dimorato. La scalinata che percorre la parete rocciosa fino all’antico eremo è rumorosa e affollata, per cui l’ascesa al luogo sacro si riduce a una passeggiata chiassosa. D’altronde, lo spiazzo davanti al monastero è stato volutamente reso enorme per accogliere gli autobus e i negozi dove prima c’erano gli eremi, creando così un business della religione a discapito delle tracce storiche e del silenzio del monastero, della sua sacralità e della sua bellezza di luogo un tempo inviolato.

Stesse sorti toccano all’importante sito monastico di Wadi Natrun, nel deserto di Scete, a circa 90 km dal Cairo, sul lato occidentale della via del deserto verso Alessandria. I quattro grandi e antichi monasteri di San Baramus, San Bishoi, San Macario e dei Siriani sono tutti autosufficienti e particolarmente attivi. Con le maggiori attenzioni che il sito riceve da parte della comunità copta, esso è in continua espansione. Ne consegue che, per rispondere ai crescenti bisogni del monastero ed incrementare il turismo religioso, aree che un tempo erano desertiche, come Kellia, sono ora coltivate; moderne costruzioni sorgono ovunque, anche nei posti storici attorno ai monasteri e sulle antiche rovine. Da una parte il monastero si espande e si intraprendono lavori archeologici e scavi, dall’altra il sostentamento e l’alloggio degli operai, così come quello dei religiosi, porta proprio alla rovina dei siti.

Anche l’importante Monastero di Anba Hadra ad Assuan è vittima dello stesso triste destino. L’immenso monastero è soggetto ad intemperie e ad atti di vandalismo che neppure le alte mura che ancora lo proteggono sono in grado di fermare. Un crimine contro questo magnifico antico complesso e i gli splendidi affreschi nell’abside della sua chiesa principale. Ma ciò che più rende perplessi è che, a pochi metri di distanza, si erge un nuovo monastero, stagliandosi bianco contro il paesaggio di sabbia e cielo. Esso è fornito di hotel e di un’ulteriore terza chiesa in costruzione. La diocesi di Assuan investe nel sito, ma catalizza le sue attenzioni sulla costruzione di questo nuovo plesso. Così fondi e interesse tralasciano o, peggio, rovinano l’antico. Le nuove, immense mura bianche sfigurano accanto alle maestose rovine del monastero storico, grandioso eppure in perfetta armonia con il paesaggio e, di rimando, rubano la scena a quello che meriterebbe di essere il solo protagonista della collina e che invece perde progressivamente parte della sua gloria.

Tutt’altro che maestosa, ma altrettanto splendida, è la Grotta di Maria (Ghurfatu Mariam), un tempo eremo, in cima al Gebel al-Tayr, immensa montagna nella regione delle oasi del Sud-Ovest dell’Egitto, fra Dakhla e Kharga. Per visitare la grotta, ci si avvale dell’accompagnamento della ‘guida’, il proprietario del terreno adiacente al sito che si è incaricato di far accedere i visitatori solo con la sua presenza. Egli spiega che il nome della montagna, letteralmente “Montagna del Volatile” viene da una leggenda lunga secoli: pare che degli uccelli volteggino sulla sommità del monte desertico procurandosi in modo misterioso acqua e cibo. Davanti a una parete rocciosa, ci si trova di fronte a magnifici graffiti preistorici e egizi e scritte in copto che si affiancano in un confuso collage sul quale spiccano gli scarabocchi in arabo del secolo scorso. Salendo verso la grotta, a fare da guardia all’imbocco si ritrovano solo gli uccelli misteriosi. La grotta è così isolata che sembrerebbe che solo essi e il vento arrivino ormai quassù, in cima alla montagna. All’interno, una vistosa lunga preghiera in copto, in tre sgargianti sfumature che vanno dal giallo al rosso, copre una vasta porzione della parete di sinistra. Di fronte si intravede una sagoma di persona che regge qualcosa. Certo, a ben guardare, si capisce: si tratta di una raffigurazione della Madonna con in braccio il Bambino; è la Maria da cui la grotta trae il nome. Proprio il volto della Madonna e del Bambino sono rovinati, di proposito. Anche qui, innumerevoli scritte recenti in arabo con nomi propri (musulmani) e date si sovrappongono ai dipinti storici e porzioni di roccia con graffiti copti sono state asportate, in uno scempio irreversibile. Dopo la tradizionale donazione del baqshìsh (mancia), la ‘guida’ offre un po’ della sua frutta, che non basta a togliere l’amaro in bocca.

 

Innanzitutto tutela. Le sfide del «Patrimonio dei Padri del Deserto»

Gli atti vandalici sono volti allo sfregio fine a se stesso; probabilmente, soprattutto da parte di musulmani, poiché il patrimonio copto non è sempre sentito come bene proprio, comune, egiziano. Ma risulta chiaro che nemmeno il governo o gli stessi monaci pare si rendano conto del valore di questo patrimonio. Questo è uno degli aspetti più amari della grave realtà a cui deve far fronte il progetto: manca una consapevolezza rispetto alla ricchezza costituita dal patrimonio, anche da parte delle comunità che vi vivono accanto. In un momento così delicato di formazione delle coscienze, è essenziale per l’Egitto integrare nella percezione del proprio passato questa tradizione antica, ricca e condivisa, non solo tra copti, ma anche con i musulmani, che hanno le stesse origini storiche preislamiche. La sensibilizzazione sull’esistenza del patrimonio dei ‘Padri del Deserto’, che è in pericolo, serve proprio a far fronte alla mancanza di consapevolezza del suo valore.

In questo senso, il progetto intraprende varie azioni che coinvolgono innanzitutto le comunità che vivono accanto ai siti, ma anche tutti gli Egiziani (i giovani, in particolare) e poi le comunità monastiche, affinché contribuiscano agli obiettivi del progetto, e la società copta, perché contribuisca con il suo aiuto e la sua partecipazione. La pagina Facebook del progetto “The Heritage of the Desert Fathers”, ad esempio, con l’immancabile attività quotidiana de “la Foto del giorno”, trasporta ogni giorno centinaia di interessati nei meravigliosi luoghi del monachesimo egiziano, tenendo vivo l’interesse per la questione.

E la tutela dei siti monastici in Egitto non riguarda certo solo gli Egiziani: le origini del Cristianesimo sono un prezioso patrimonio mondiale. Se si pensa quanto i cristiani venerino sant’Antonio Abate, il Santo del Deserto la cui influenza affonda persino nelle antiche tradizioni popolari, si capisce quanto quello dei ‘Padri del Deserto’ sia un mondo a noi vicino, anzi faccia parte della nostra cultura e della nostra Storia; e questo a prescindere dalla situazione religiosa, politica, ed economica attuale dell’Egitto. È per questo che il progetto si impegna anche ad iscrivere gli eremi dei ‘Padri del Deserto’ alla nomina di siti del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO.

 

Documentazione dei siti e studio della tradizione

Altro compito del progetto è un’urgente e puntuale documentazione dei siti. Lo Stato islamico, infatti, ha già un impatto grave sul patrimonio culturale egiziano. L’attentato al consolato italiano dell’11 luglio 2015, nel cuore del Cairo, ne è una prova. Avvenuto alle 6:30 di un sabato mattina, quando il palazzo era ancora chiuso, l’attentato ha causato la morte del poliziotto di guardia e il crollo di gran parte dell’edificio. Il giorno stesso, molti (Egiziani) lamentavano la perdita di un palazzo storico stupendo, un bene andato distrutto, a prescindere dal suo utilizzo come consolato italiano. Anche l’archeologia egiziana risente delle azioni del ramo locale dello Stato islamico. Per esempio, a seguito dell’uccisione dell’ostaggio croato da parte della Provincia del Sinai, molti scavi nel deserto egiziano sono stati interrotti. I siti cristiani sono doppiamente a rischio per la minaccia IS: fanno spesso parte dei siti egizi, in pericolo in quanto preislamici, e in più rappresentano un bersaglio in sé, ma senza godere della stessa attenzione e protezione dei siti faraonici.

Le difficoltà legate alla tutela e alla documentazione dei siti monastici in Egitto sono quindi di varia natura. Anche la loro dislocazione rende le ricerche isolate. Gli studiosi si focalizzano perlopiù su uno o qualche singolo sito, perdendo di vista il panorama globale della vita monastica degli albori. Per questo un obiettivo prioritario del progetto è la creazione di una mappa. La mappa sarebbe il risultato di un’indagine sistematica delle lontane aree dell’Alto Egitto, del Deserto Orientale, delle Oasi Occidentali e degli antichi Regni Nubiani (attuale Sudan) per ricostruire le reti e le migrazioni che hanno coinvolto queste tradizioni e la loro influenza reciproca all’interno dell’Egitto, con la Nubia e l’Etiopia. Una volta stabilite le coordinate dei posti, sarà possibile raccogliere una serie di informazioni a vari livelli. Esse comprenderanno le notizie sul singolo eremo e sulla rete di eremi ai quali si collegava. Il progetto intende mettere le carte a disposizione della comunità dei ricercatori e degli interessati di ogni disciplina.

Prendendo in conto l’insieme dei monasteri e degli eremi sarà possibile studiare il patrimonio nella sua interezza e esaminare anche altri aspetti più profondi che lo riguardano, come l’aspetto spirituale. I metodi e le tecniche dei ‘Padri del Deserto’ sono paragonabili ad altre tradizioni spirituali, come le pratiche yoga, le tradizioni sufiche, l’attenta e piena consapevolezza sati e altre pratiche buddiste meditative per calmare le passioni e distaccarsi dai sentimenti esteriori e dai pensieri per raggiungere una visione globale del paesaggio psicologico in cammino verso la percezione suprema, l’unione con Dio (unio mystica). Su questo cammino, gli eremiti aspirano al distacco e alla profonda decostruzione di livelli periferici del sé, che potrebbero costituire potenziali ostacoli, pericoli e distrazioni potendo così tornare a un’essenziale esperienza del sé, che teoricamente costituisce la base delle esperienze mistiche nel Cristianesimo e in altre tradizioni spirituali. Detti e le testimonianze dei ‘Padri del Deserto’ sono particolarmente interessanti, poiché non partono da considerazioni teoretiche, ma da esperienze pratiche, ascetiche e dalle profonda osservazione delle condizioni mentali, di emozioni e stati d’animo, fantasie, sogni e visioni. Le pratiche sono particolarmente attente ad ostacoli, pericoli e distrazioni del cammino spirituale e possono essere comparate all’analogo processo psicoterapeutico.

Strategie e tecniche usate nella guida spirituale fornita dai ‘Padri del Deserto’ possono ispirare la psicoterapia ed essere particolarmente rilevanti per sostenere le ricerche creative e spirituali dei pazienti, spesso trascurate o incomprese nelle forme classiche di psicoterapia. Esse sono preziose e persino cruciali per la riconnessione con le fonti profonde della guarigione, la capacità di recupero e la speranza. Ed è questo interessante aspetto dell’eredità dei ‘Padri del Deserto’ il secondo ambito di ricerca in programma. (Cfr. http://desert-fathers.com/articles/scientific-articles/the-sayings-of-the-desert-fathers-and-the-question-of-self-a-general-outline-by-borut-skodlar-jan-ciglenecki/)

Il progetto suscita l’interesse della comunità scientifica: vari ricercatori da tutto il mondo lo stimano e forniscono il loro aiuto. Molti copti esprimono il loro apprezzamento informale, tramite e-mail. Altri, nel mondo, seguono il progetto attraverso la pagina Facebook. Spesso, gli stessi ricercatori forniscono spontaneamente il loro contributo. Ma un’attenzione verso «Il Patrimonio dei Padri del Deserto» è manifestata anche da parte di appassionati di cultura copta e gente comune. Egiziani, cristiani, curiosi in giro per il mondo: tutti vedono questo patrimonio come proprio e da salvare. Perché l’eredità dei ‘Padri del Deserto’ è un patrimonio nostro che, se messo in valore, preservato e studiato, ci può parlare e aiutare nel presente, un passato tangibile che, se perso, è cancellato per sempre, per tutti.

Contribuite anche voi a far conoscere e preservare il patrimonio dei ‘Padri del Deserto’. Potete visitare il sito web per maggiori informazioni sul progetto (www.desert-fathers.com) e su come fornire un supporto finanziario e la sua pagina Facebook “The Heritage of the Desert Fathers”.

 

Daniela Potenza

Laureata in Lingue, Storie e Culture del Mediterraneo e dei Paesi Islamici presso l’Università L’Orientale di Napoli, Daniela Potenza è dottoranda in Letteratura Araba presso l’Università INALCO di Parigi, in co-tutela con L’Orientale. Effettua parte della sua ricerca al Cairo e a Tunisi.



[1] Cfr. V. Ghica, S. Marchand e A. Marangou, «Les ermitages d’Abū Daraǧ revisités» in BIFAO 108 (2008), pp. 115-163.

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