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Giorgio Colli e la nascita della ragione

Dietro queste pagine su La nascita della filosofia si nasconde uno dei filosofi più originali del dopoguerra e una delle più audaci teorie della ragione che mai siano state avanzate nel pensiero occidentale.

Giorgio Colli (Torino, 1917-San Domenico di Fiesole, 1979) era ben qualificato per far ciò. Primo traduttore, e commentatore italiano dell’Organon di Aristotele, autore di una memorabile versione della Critica della ragione pura, il cui testo – alla stregua delle traduzioni antiche dei classici – è considerato dagli specialisti alla stregua di “portatore di varianti”, capaci di chiarire, a ritroso, l’originale, editore mondiale, con Mazzino Montinari, del testo critico di Nietzsche, contemporaneamente pubblicato in tedesco, inglese, francese, giapponese ed italiano, traduttore di Platone, dei Presocratici, di Schopenhauer, direttore di celebri collane di filosofia e di autori classici, Colli era – in primo luogo – un filosofo egli stesso, un filologo agguerrito e un esponente di spicco nel dibattito culturale del dopoguerra.

La parte più preziosa del suo insegnamento era – però – ciò che non poteva essere consegnato alla scrittura. Giorgio Colli era un maestro: uno pedagogo straordinario che dava il meglio di se stesso nel contatto diretto con gli allievi e con gli amici. Lo testimonia lo spettro degli interessi dei suoi allievi e la lista di coloro che, in un modo o nell’altro, hanno dichiarato un debito intellettuale nei suoi confronti.

Ricordo un episodio occorso ad uno di questi allievi all’Università di Pisa nel gennaio 1976. Abbagliato da una lezione su Parmenide, alla quale Colli si era presentato in lieve ritardo, apparendo in silenzio, guardandosi intorno da una distanza sorprendente mentre, lentamente, sfilava il suo soprabito, messosi in cattedra senza cedere alla fretta, quest’uomo singolare aveva iniziato la sua lectio chiedendo agli ascoltatori se avessero qualcosa da dire. Il malcapitato avventore non aveva trovato nulla di meglio che avvicinare l’uomo alla fine del corso per chiedergli, diligentemente, qualche elemento di bibliografia sull’argomento che aveva appena svolto. Colli si voltò e rispose a quell’allievo, con il suo inconfondibile accento nasale e strascicato: “Ma sa, i libri non servono a niente”. E così, mi si dice, proseguendo il suo cammino, era uscito dal Palazzo ove si tenevano i corsi di filosofia antica.

Di questa matrice orale della filosofia greca il libretto che qui si presenta espone una teoria generale e dettagliata. Questa è la prima lezione di Colli: alla scuola della Grecia arcaica, il logos occidentale si è essenzialmente formato come dialeghesthai, come dialettica viva tra due interlocutori cha affinano, progressivamente, il proprio confronto forgiando le categorie più rarefatte dell’astrazione.

Nel concepire questo scenario, Colli era eminentemente fedele al dato concreto. Non è un caso che la filosofia nasca con Platone inaugurando un nuovo genere letterario, il dialogo. Platone ripropone per iscritto l’esperienza dell’incontro con la dialettica di Socrate: il dialogo platonico come genere letterario è, così, un’epigrafe grandiosa in memoria dell’esperienza dell’incontro con Socrate, questo personaggio inclassificabile.

Ne discende il secondo elemento che caratterizza la prospettiva di Colli: il suo interesse per la sapienza, l’epoca di Eraclito, Parmenide, Empedocle, l’epoca dei Presocratici, di cui la filosofia – ‘amore per la sapienza’, e non sapienza – non è che un’eco affievolita, trasmessa alla tradizione, di un evento che precede la scrittura come strumento di comunicazione filosofica.

È, in effetti, nei ranghi della sapienza greca che è nata la ragione occidentale: basti pensare al poema di Parmenide, nel quale l’epifania di una divinità suprema si traduce, sorprendentemente, nell’esposizione di una dottrina razionale che altro non è che il primo scambio dialettico (un aut aut: è o non è) nella storia del pensiero occidentale.

D’altra parte, la retrocessione dalla filosofia in direzione della sapienza dava, a Colli, l’impulso per rimontare – alle spalle della filosofia – verso la religione. L’origine della filosofia è la crisi della religiosità greca: più precisamente, la ragione occidentale nasce da un’esperienza mistica, di tipo dionisiaco.

Che cos’è la mistica? È un’esperienza in cui chi sperimenta non è più distinto da ciò che è sperimentato. Più precisamente: mistica è inglobamento del conoscente nel conosciuto grazie all’esperienza di una certa conoscenza. Ne discende una teoria della ragione normale, in cui il soggetto non è separato dall’oggetto, ma in cui il logos racconta, al tempo stesso, la scoperta dei concetti dentro di noi e la tessitura del mondo fuori di noi. Che raccontano, al tempo stesso, l’oggetto e il soggetto. Coincidenza di Dio, del mondo e dell’anima, ovvero di essere e conoscere: è questo il fenomeno che, secondo Giorgio Colli, dà l’impulso alla civiltà greca per osare quel salto inaudito nel vuoto che porta alla nascita della ragione astratta. I suoi allievi testimoniano che Colli era un maestro esattamente per il fatto che la sua presenza suscitava quest’attitudine in chi lo frequentasse.

Alle origini della ragione c’è, dunque, un’esperienza: la stessa che porta alla tragedia, per Nietzsche, o che – giusto Vernant – conduce l’aedo omerico sul luogo stesso degli eventi da cantare, facendosi così – con visione panoramica – il contemporaneo dei propri esametri. Se conoscere qualcosa, da Aristotele in poi, significa possedere la conoscenza della causa, dell’origine di questo qualcosa, l’impulso che fece procedere alla scoperta della ragione era qualche cosa che precede la filosofia. L’impulso all’astrazione – alla scoperta delle categorie universali che superano la dicotomia tra oggetto e soggetto – si radica, dunque, in un’esperienza vissuta che va alle spalle di questa separazione e si identifica nell’aspirazione al superamento del mondo sensibile. È un impulso al superamento del mondo, che porta con sé la separazione della coscienza, a mettere sulla strada della ricerca degli universali e alla scoperta della ragione. La teoria della ragione di Colli è, dunque, una teoria della scoperta della ragione. Della nascita della filosofia da qualcosa che trascende la filosofia, la ragione e il mondo come ci appare. La teoria della ragione è, così, il racconto della scoperta del logos, espressione dell’unione tra oggetto e soggetto.

Celebrata da Platone, o da Goethe, come istante, e – più in generale, da innumerevoli altri – come estasi, la mistica filosofica può essere, più precisamente, definita come enstasi. Ciò che i greci chiamano enthousiasmos, i latini mentis excessus, gli indiani samâdhi, gli ebrei morte di bacio, gli arabi tafrîd, i romantici Begeisterung. Se l’estasi è un uscire fuori di sé, abbandonando la condizione umana, l’enstasi è un entrare dentro di sé: un’esperienza del Sé, ‘entusiasmo’. Della coincidenza delle scaturigini del mondo con le origini della coscienza umana. Da questo slancio vertiginoso verso le categorie più rarefatte dell’astrazione discende la scoperta del vertice dell’essere, l’espressione ultima che abbraccia tutte le altre. Così, nello spazio di qualche generazione, prende forma l’edificio categoriale che i Presocratici affidano in lascito a Platone e che, attraverso Aristotele, viene trasmesso dalla tradizione occidentale. Le distinzioni da manuale tra razionalismo e irrazionalismo non tengono: i massimi principi del sillogismo – primo fra tutti, il principio di contraddizione – sono altrettanto intuitivi e indimostrabili che l’esperienza mistica dionisiaca o eleusina; ed è dal fraintendimento delle origini non razionali della ragione che nascono le incomprensioni non soltanto della sapienza greca, ma della stessa logica, e sillogistica aristotelica, che – fanno fede i Secodi Analitici – è una teoria della dimostrazione indiretta che si basa su principi che indiretti più non sono, e che non sono più dimostrabili, ma intuitivamente, immediatamente presenti in ogni biforcazione della coscienza riflessiva. Che questa coscienza lo sappia oppure no. L’attività razionale porta, dunque, nel suo principio, lo stesso marchio del contatto soggetto-oggetto che già era alla base della mistica presocratica e dell’avventura della scoperta della ragione. Il lettore non avrà che da sfogliare questo libretto per conoscere le tappe dettagliate di questa avventura. Di questa avventura che è la nostra storia: la storia della ricerca dell’uomo occidentale di rendere ragione di se stesso e del mondo, che oggi sembra culminare nella scienza e nella tecnica.

Se, sul versane teoretico, questi accenni possono forse bastare per introdurre nella prospettiva di Colli, si dovrà concludere, su un altro versante, che quest’intima connessione tra oggetto e soggetto trovava la sua applicazione forse più fondamentale, in una stretta compenetrazione tra il filosofo e la filosofia: in una pratica della filosofia come maniera di vivere (Hadot). La prova più evidente di questo atteggiamento consisteva nell’importanza dell’etica per Colli. L’unico maestro che egli riconoscesse era, in effetti, Piero Martinetti, uno degli undici che, su più di mille docenti costituenti il corpo accademico dell’epoca, rifiutarono di prestare fedeltà al fascismo onde poter preservare la propria posizione. Perso ogni ruolo professionale, Martinetti – maestro, a sua volta, di una lunga generazione di filosofi – era andato ad abitare in una capanna di Pont Canavese, dove aveva trasportato i propri libri e si scaldava con legna di bosco. Colli stesso fu, d’altronde, un esule del fascismo e già suo padre, direttore amministrativo de La Stampa di Torino, aveva rifiutato l’adesione al regime, così perdendo, per lunghi anni, il suo lavoro. La scelta della filosofia come maniera di vivere porta con sé delle obbligazioni, e, anche dopo il fascismo, Colli aveva proseguito la propria ricerca in un isolamento che fa il più stridente contrasto con la fama internazionale che le sue iniziative culturali assumevano. Per chi, negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta non aderisse ad un’ideologia (marxista, scientista, fideista o quant’altra), si riaprivano le prospettive per sperimentare l’unità greca tra azione e conoscenza nella propria stessa vita. L’interesse per la mistica non sfocia, così, in una visione distaccata dell’esistenza e un congedo dal quotidiano mestiere di vivere, ma fornisce nuovo alimento, o combustibile, alla morale. Etica e mistica sono unite strettamente nella visione della sapienza, perché è un’aspirazione di natura morale a portare al superamento del mondo sensibile, così come il superamento mistico della condizione umana forgia l’obbligazione al ritorno cosciente verso i limiti della condizione umana. Si è parlato di mistica filosofica come enstasi, ovvero come cancellazione dell’individuo: ma mistica significa ancora, nell’esperienza cristiana, la scoperta di un amore che, nella sua trascendenza, preserva l’individualità del Figlio nella libera relazione con il Padre. In effetti, la morale mistica di Colli come maestro portava con sé il postulato della libertà per tutti coloro che volessero essere suoi allievi. Era alla regola della libertà che Colli misurava il valore dei propri allievi, e non nella trita ripetizione di dottrine che annoiava il loro autore sempre in cerca di nuove strade. Nei suoi ascoltatori Colli amava la tenzone, il confronto, il tentativo di sperimentare nuove vie; e cercava nell’interlocutore l’intuizione, lo spunto che gli permettessero di alleggerirsi del proprio sapere. Di riscoprirlo da un altro punto di vista. In questo senso, Colli è stato un grande maestro di libertà, e proprio per questo un vero maestro e un vero filosofo. Di quest’uomo, di cui è stato detto che “non esiste altra persona così libera e pudica giunta a una qualche fama nella cultura italiana” (G. Alvi), vorrei ricordare un altro episodio tratto dalla memoria di un altro dei suoi allievi: di qualcuno che abbandonò la prospettiva dei Presocratici in direzione della mistica cristiana. Lascio, qui, la parola a quest’altro allievo: le sue considerazioni non hanno bisogno di commento.

“L’incontro con Giorgio Colli non era di quelli che potessero lasciare altri spazi: erano in gioco delle scelte fondamentali di vita. Mi risolsi, e un giorno gli dissi semplicemente che avevo deciso di diventare cristiano, una scelta che sapevo significare per lui inequivocabilmente debolezza… Non ho conosciuto nessun uomo interiormente più libero di Giorgio Colli, e riconosco in lui, nella sua fascinosa intelligenza e aristocratica immobilità, uno di quei maestri rari e preziosi che, per chi abbia la fortuna di incontrarli al momento giusto, diventano un punto di riferimento e aiutano a crescere nella libertà.”

Nella prospettiva che aprono queste linee di Ernesto Berti si trova, senza dubbio, la lezione centrale di Colli: quella del coraggio e della libertà della cultura, che sempre si accompagnano al pensiero profondo; e in quest’apertura a una mistica diversa dall’estasi della discordia di tipo dionisiaco la sua teoria della nascita della ragione si apre, oggigiorno, al confronto con altre visioni, come quella di Girard o Levinas. Come Berti ha avuto modo di spiegarmi, tutta la vita cristiana è un’esperienza mistica, la quale non cancella violentemente la personalità, ma la colloca in una relazione aperta con un Dio che – poco a poco – preserva e trasfigura la persona della creatura nell’incontro delicato con il proprio Creatore. Il libro che qui si affida nelle mani del lettore è, così, un invito a verificare egli stesso questi criteri di libertà: un incoraggiamento a indirizzare la propria vita, nella ricerca della verità, secondo una lezione in cui mistica, desiderio, ragione e filosofia si verifichino al metro dell’unità della vita. Un confronto dialettico, appunto.

 

Giorgio Colli e la nascita della ragione

Dietro queste pagine su La nascita della filosofia si nasconde uno dei filosofi più originali del dopoguerra e una delle più audaci teorie della ragione che mai siano state avanzate nel pensiero occidentale.

Giorgio Colli (Torino, 1917-San Domenico di Fiesole, 1979) era ben qualificato per far ciò. Primo traduttore, e commentatore italiano dell’Organon di Aristotele, autore di una memorabile versione della Critica della ragione pura, il cui testo – alla stregua delle traduzioni antiche dei classici – è considerato dagli specialisti alla stregua di “portatore di varianti”, capaci di chiarire, a ritroso, l’originale, editore mondiale, con Mazzino Montinari, del testo critico di Nietzsche, contemporaneamente pubblicato in tedesco, inglese, francese, giapponese ed italiano, traduttore di Platone, dei Presocratici, di Schopenhauer, direttore di celebri collane di filosofia e di autori classici, Colli era – in primo luogo – un filosofo egli stesso, un filologo agguerrito e un esponente di spicco nel dibattito culturale del dopoguerra.

La parte più preziosa del suo insegnamento era – però – ciò che non poteva essere consegnato alla scrittura. Giorgio Colli era un maestro: uno pedagogo straordinario che dava il meglio di se stesso nel contatto diretto con gli allievi e con gli amici. Lo testimonia lo spettro degli interessi dei suoi allievi e la lista di coloro che, in un modo o nell’altro, hanno dichiarato un debito intellettuale nei suoi confronti.

Ricordo un episodio occorso ad uno di questi allievi all’Università di Pisa nel gennaio 1976. Abbagliato da una lezione su Parmenide, alla quale Colli si era presentato in lieve ritardo, apparendo in silenzio, guardandosi intorno da una distanza sorprendente mentre, lentamente, sfilava il suo soprabito, messosi in cattedra senza cedere alla fretta, quest’uomo singolare aveva iniziato la sua lectio chiedendo agli ascoltatori se avessero qualcosa da dire. Il malcapitato avventore non aveva trovato nulla di meglio che avvicinare l’uomo alla fine del corso per chiedergli, diligentemente, qualche elemento di bibliografia sull’argomento che aveva appena svolto. Colli si voltò e rispose a quell’allievo, con il suo inconfondibile accento nasale e strascicato: “Ma sa, i libri non servono a niente”. E così, mi si dice, proseguendo il suo cammino, era uscito dal Palazzo ove si tenevano i corsi di filosofia antica.

Di questa matrice orale della filosofia greca il libretto che qui si presenta espone una teoria generale e dettagliata. Questa è la prima lezione di Colli: alla scuola della Grecia arcaica, il logos occidentale si è essenzialmente formato come dialeghesthai, come dialettica viva tra due interlocutori cha affinano, progressivamente, il proprio confronto forgiando le categorie più rarefatte dell’astrazione.

Nel concepire questo scenario, Colli era eminentemente fedele al dato concreto. Non è un caso che la filosofia nasca con Platone inaugurando un nuovo genere letterario, il dialogo. Platone ripropone per iscritto l’esperienza dell’incontro con la dialettica di Socrate: il dialogo platonico come genere letterario è, così, un’epigrafe grandiosa in memoria dell’esperienza dell’incontro con Socrate, questo personaggio inclassificabile.

Ne discende il secondo elemento che caratterizza la prospettiva di Colli: il suo interesse per la sapienza, l’epoca di Eraclito, Parmenide, Empedocle, l’epoca dei Presocratici, di cui la filosofia – ‘amore per la sapienza’, e non sapienza – non è che un’eco affievolita, trasmessa alla tradizione, di un evento che precede la scrittura come strumento di comunicazione filosofica.

È, in effetti, nei ranghi della sapienza greca che è nata la ragione occidentale: basti pensare al poema di Parmenide, nel quale l’epifania di una divinità suprema si traduce, sorprendentemente, nell’esposizione di una dottrina razionale che altro non è che il primo scambio dialettico (un aut aut: è o non è) nella storia del pensiero occidentale.

D’altra parte, la retrocessione dalla filosofia in direzione della sapienza dava, a Colli, l’impulso per rimontare – alle spalle della filosofia – verso la religione. L’origine della filosofia è la crisi della religiosità greca: più precisamente, la ragione occidentale nasce da un’esperienza mistica, di tipo dionisiaco.

Che cos’è la mistica? È un’esperienza in cui chi sperimenta non è più distinto da ciò che è sperimentato. Più precisamente: mistica è inglobamento del conoscente nel conosciuto grazie all’esperienza di una certa conoscenza. Ne discende una teoria della ragione normale, in cui il soggetto non è separato dall’oggetto, ma in cui il logos racconta, al tempo stesso, la scoperta dei concetti dentro di noi e la tessitura del mondo fuori di noi. Che raccontano, al tempo stesso, l’oggetto e il soggetto. Coincidenza di Dio, del mondo e dell’anima, ovvero di essere e conoscere: è questo il fenomeno che, secondo Giorgio Colli, dà l’impulso alla civiltà greca per osare quel salto inaudito nel vuoto che porta alla nascita della ragione astratta. I suoi allievi testimoniano che Colli era un maestro esattamente per il fatto che la sua presenza suscitava quest’attitudine in chi lo frequentasse.

Alle origini della ragione c’è, dunque, un’esperienza: la stessa che porta alla tragedia, per Nietzsche, o che – giusto Vernant – conduce l’aedo omerico sul luogo stesso degli eventi da cantare, facendosi così – con visione panoramica – il contemporaneo dei propri esametri. Se conoscere qualcosa, da Aristotele in poi, significa possedere la conoscenza della causa, dell’origine di questo qualcosa, l’impulso che fece procedere alla scoperta della ragione era qualche cosa che precede la filosofia. L’impulso all’astrazione – alla scoperta delle categorie universali che superano la dicotomia tra oggetto e soggetto – si radica, dunque, in un’esperienza vissuta che va alle spalle di questa separazione e si identifica nell’aspirazione al superamento del mondo sensibile. È un impulso al superamento del mondo, che porta con sé la separazione della coscienza, a mettere sulla strada della ricerca degli universali e alla scoperta della ragione. La teoria della ragione di Colli è, dunque, una teoria della scoperta della ragione. Della nascita della filosofia da qualcosa che trascende la filosofia, la ragione e il mondo come ci appare. La teoria della ragione è, così, il racconto della scoperta del logos, espressione dell’unione tra oggetto e soggetto.

Celebrata da Platone, o da Goethe, come istante, e – più in generale, da innumerevoli altri – come estasi, la mistica filosofica può essere, più precisamente, definita come enstasi. Ciò che i greci chiamano enthousiasmos, i latini mentis excessus, gli indiani samâdhi, gli ebrei morte di bacio, gli arabi tafrîd, i romantici Begeisterung. Se l’estasi è un uscire fuori di sé, abbandonando la condizione umana, l’enstasi è un entrare dentro di sé: un’esperienza del Sé, ‘entusiasmo’. Della coincidenza delle scaturigini del mondo con le origini della coscienza umana. Da questo slancio vertiginoso verso le categorie più rarefatte dell’astrazione discende la scoperta del vertice dell’essere, l’espressione ultima che abbraccia tutte le altre. Così, nello spazio di qualche generazione, prende forma l’edificio categoriale che i Presocratici affidano in lascito a Platone e che, attraverso Aristotele, viene trasmesso dalla tradizione occidentale. Le distinzioni da manuale tra razionalismo e irrazionalismo non tengono: i massimi principi del sillogismo – primo fra tutti, il principio di contraddizione – sono altrettanto intuitivi e indimostrabili che l’esperienza mistica dionisiaca o eleusina; ed è dal fraintendimento delle origini non razionali della ragione che nascono le incomprensioni non soltanto della sapienza greca, ma della stessa logica, e sillogistica aristotelica, che – fanno fede i Secodi Analitici – è una teoria della dimostrazione indiretta che si basa su principi che indiretti più non sono, e che non sono più dimostrabili, ma intuitivamente, immediatamente presenti in ogni biforcazione della coscienza riflessiva. Che questa coscienza lo sappia oppure no. L’attività razionale porta, dunque, nel suo principio, lo stesso marchio del contatto soggetto-oggetto che già era alla base della mistica presocratica e dell’avventura della scoperta della ragione. Il lettore non avrà che da sfogliare questo libretto per conoscere le tappe dettagliate di questa avventura. Di questa avventura che è la nostra storia: la storia della ricerca dell’uomo occidentale di rendere ragione di se stesso e del mondo, che oggi sembra culminare nella scienza e nella tecnica.

Se, sul versane teoretico, questi accenni possono forse bastare per introdurre nella prospettiva di Colli, si dovrà concludere, su un altro versante, che quest’intima connessione tra oggetto e soggetto trovava la sua applicazione forse più fondamentale, in una stretta compenetrazione tra il filosofo e la filosofia: in una pratica della filosofia come maniera di vivere (Hadot). La prova più evidente di questo atteggiamento consisteva nell’importanza dell’etica per Colli. L’unico maestro che egli riconoscesse era, in effetti, Piero Martinetti, uno degli undici che, su più di mille docenti costituenti il corpo accademico dell’epoca, rifiutarono di prestare fedeltà al fascismo onde poter preservare la propria posizione. Perso ogni ruolo professionale, Martinetti – maestro, a sua volta, di una lunga generazione di filosofi – era andato ad abitare in una capanna di Pont Canavese, dove aveva trasportato i propri libri e si scaldava con legna di bosco. Colli stesso fu, d’altronde, un esule del fascismo e già suo padre, direttore amministrativo de La Stampa di Torino, aveva rifiutato l’adesione al regime, così perdendo, per lunghi anni, il suo lavoro. La scelta della filosofia come maniera di vivere porta con sé delle obbligazioni, e, anche dopo il fascismo, Colli aveva proseguito la propria ricerca in un isolamento che fa il più stridente contrasto con la fama internazionale che le sue iniziative culturali assumevano. Per chi, negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta non aderisse ad un’ideologia (marxista, scientista, fideista o quant’altra), si riaprivano le prospettive per sperimentare l’unità greca tra azione e conoscenza nella propria stessa vita. L’interesse per la mistica non sfocia, così, in una visione distaccata dell’esistenza e un congedo dal quotidiano mestiere di vivere, ma fornisce nuovo alimento, o combustibile, alla morale. Etica e mistica sono unite strettamente nella visione della sapienza, perché è un’aspirazione di natura morale a portare al superamento del mondo sensibile, così come il superamento mistico della condizione umana forgia l’obbligazione al ritorno cosciente verso i limiti della condizione umana. Si è parlato di mistica filosofica come enstasi, ovvero come cancellazione dell’individuo: ma mistica significa ancora, nell’esperienza cristiana, la scoperta di un amore che, nella sua trascendenza, preserva l’individualità del Figlio nella libera relazione con il Padre. In effetti, la morale mistica di Colli come maestro portava con sé il postulato della libertà per tutti coloro che volessero essere suoi allievi. Era alla regola della libertà che Colli misurava il valore dei propri allievi, e non nella trita ripetizione di dottrine che annoiava il loro autore sempre in cerca di nuove strade. Nei suoi ascoltatori Colli amava la tenzone, il confronto, il tentativo di sperimentare nuove vie; e cercava nell’interlocutore l’intuizione, lo spunto che gli permettessero di alleggerirsi del proprio sapere. Di riscoprirlo da un altro punto di vista. In questo senso, Colli è stato un grande maestro di libertà, e proprio per questo un vero maestro e un vero filosofo. Di quest’uomo, di cui è stato detto che “non esiste altra persona così libera e pudica giunta a una qualche fama nella cultura italiana” (G. Alvi), vorrei ricordare un altro episodio tratto dalla memoria di un altro dei suoi allievi: di qualcuno che abbandonò la prospettiva dei Presocratici in direzione della mistica cristiana. Lascio, qui, la parola a quest’altro allievo: le sue considerazioni non hanno bisogno di commento.

“L’incontro con Giorgio Colli non era di quelli che potessero lasciare altri spazi: erano in gioco delle scelte fondamentali di vita. Mi risolsi, e un giorno gli dissi semplicemente che avevo deciso di diventare cristiano, una scelta che sapevo significare per lui inequivocabilmente debolezza… Non ho conosciuto nessun uomo interiormente più libero di Giorgio Colli, e riconosco in lui, nella sua fascinosa intelligenza e aristocratica immobilità, uno di quei maestri rari e preziosi che, per chi abbia la fortuna di incontrarli al momento giusto, diventano un punto di riferimento e aiutano a crescere nella libertà.”

Nella prospettiva che aprono queste linee di Ernesto Berti si trova, senza dubbio, la lezione centrale di Colli: quella del coraggio e della libertà della cultura, che sempre si accompagnano al pensiero profondo; e in quest’apertura a una mistica diversa dall’estasi della discordia di tipo dionisiaco la sua teoria della nascita della ragione si apre, oggigiorno, al confronto con altre visioni, come quella di Girard o Levinas. Come Berti ha avuto modo di spiegarmi, tutta la vita cristiana è un’esperienza mistica, la quale non cancella violentemente la personalità, ma la colloca in una relazione aperta con un Dio che – poco a poco – preserva e trasfigura la persona della creatura nell’incontro delicato con il proprio Creatore. Il libro che qui si affida nelle mani del lettore è, così, un invito a verificare egli stesso questi criteri di libertà: un incoraggiamento a indirizzare la propria vita, nella ricerca della verità, secondo una lezione in cui mistica, desiderio, ragione e filosofia si verifichino al metro dell’unità della vita. Un confronto dialettico, appunto.

 

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