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Atene e Gerusalemme: vie del dialogo

Centro Studi Veneto «Jacques Maritain»
Università degli Studi di Padova – Dipartimento di Filosofia

According to Sergej Averincev, «Athens and Jerusalem», mean «the contrast and the meeting of two creative principles». We have to read this two creative principles as the epiphany of different – and equally fundamental – human approaches to reality, not as two «stages» of a unique evolutionary movement of Culture, a movement in which the first principle – Jerusalem – would be the pre-history of the second one – Athens –. The Hebraic-christian universe is not the prehistory of the Greek universe. It is another history. In this perspective, we can understand clearly that a meeting of different creative principles is not a matter of translation from a dialect into a language, as a passage from prehistory to history could be.
Moreover it will be clear that every effort of translation counts on something common between those who are involved in translation. So every translation does not have as a result only mutual understanding, but also the emergence of those elements which make understanding and sharing possible. What comes to the surface is neither mine nor yours, but ours. And what is really ours is real life and its deep values that we all share, although we express them in different ways.
The problem of the relationship between universality (what we deeply share) and particularity (the way we express it) becomes the problem of the relationship between people whose existence is grounded in different experiences and sets of values. A question arises: Jerusalem and Athens will succeed in their translation? Will they discover what they already share, what we can call the living universality?
It comes to surface a sensitive point, which is the premise of every attempt of translation and of every effective dialogue between people who belong to different cultures and traditions. We could say that there is a preliminary condition for dialogue, and this preliminary condition is living in the heart of a tradition, which means the effort to read what happens in one’s own existence according to the wisdom of the tradition in which one lives. This means therefore to renew the tradition, because it is continuously questioned by the experience. This individual capacity to live and to think in a tradition is what we can call “living particularity”. And therefore, considering some worries of Šestov and the remarks of Averincev, we could perhaps say that only who lives in the heart of a tradition (living particularity) can succeed in translation and in discovering the living universality.

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Oriente e Occidente: il cammino avviato da questo gruppo di ricerca nel 2001 quest’anno può fare idealmente tappa su un simbolo altrettanto suggestivo, il binomio «Atene-Gerusalemme». In fondo, proprio come voleva Sergej Averincev, continuiamo ad esplorare la contrapposizione e l’incontro di due principi creativi; «contrapposizione» significa diversità, quella diversità che si fa quasi incommensurabilità nella lettura che il filologo russo proponeva all’inizio degli anni Settanta. Atene e Gerusalemme – intese come culture, come letterature ma anche come simboli – esigono misure diverse, e quindi l’una non può essere metro dell’altra, e l’orizzonte possibile è la coesistenza: insieme ed alla pari. Ma «contrapposizione» può significare anche inconciliabilità, avversità: qui Atene e Gerusalemme assumono il tratto della penna di Šestov, e la coesistenza difficilmente si fa orizzonte.
E tuttavia non c’è solo contrapposizione, per Averincev c’è anche «incontro»: un incontro che non è sintesi, non è fusione ma neppure semplice coesistenza e reciproca tolleranza. È qualcosa di diverso, è un camminare fianco a fianco, sostenendosi a vicenda.
Le suggestioni che proverei a raccogliere si muovono entro questi confini e provano a dar voce – una voce immancabilmente occidentale e latina – soprattutto a quelle intuizioni che hanno animato il percorso intrapreso insieme e che credo stiano via via, nel tempo, trovando espressione nel nostro incontrarci, ben al di là dei temi su cui si concentrano i nostri seminari.

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Il saggio “Atene e Gerusalemme” è una perla di grande valore nella riflessione di Averincev, perché assume una caratura culturale molto significativa: si tratta di accogliere la diversità (diversità culturale, intellettuale, religiosa, letteraria) di due principi creativi, ma appunto di imparare a leggerla come l’epifania di approcci alla realtà ugualmente fondamentali nell’umano, non come due «stadi» di un unico movimento evolutivo della cultura in cui uno – Gerusalemme – sarebbe la preistoria dell’altro – Atene –. L’universo ebraico-cristiano non è la preistoria dell’universo greco. È un’altra storia.

«Non è forse più esatto dire – osserva Averincev – che le letterature del Vicino Oriente antico, considerate nel loro complesso, e la letteratura dell’antica Grecia, presa anch’essa nel suo complesso, sono fenomeni di ordine concettualmente diverso, che non si prestano a nessun confronto nelle categorie del “livello” o della “stadialità”? Che insomma non si tratta di stadi di uno stesso cammino, ma piuttosto di due cammini differenti, che da un unico punto iniziale si sono separati, prendendo due diverse direzioni?».

L’interrogativo dinanzi a cui ci porta Averincev allora è questo: cosa accade quando due cammini, due storie si incontrano? Per capire ciò che può accadere è possibile considerare uno dei passaggi storicamente e simbolicamente cruciali dell’incontro tra la storia del Vicino Oriente e quella dell’antica Grecia – forse le uniche storie in grado di incontrarsi, proprio per la centralità che entrambe attribuivano alla parola, al logos – : si tratta della traduzione dei Settanta, la monumentale opera di redazione in greco dell’Antico Testamento. L’incontro tra Atene e Gerusalemme si sostanzia quindi in una parola: traduzione.

«I popoli dell’Oriente, desiderosi di esibire i tesori della propria saggezza nazionale al mercato ellenistico delle idee, col suo carattere universale, erano costretti a rivestire preliminarmente tali tesori con l’involucro delle forme lessicali, e per quanto possibile anche intellettuali, greche. L’epoca esigeva degli interpreti».

Molto opportunamente Averincev sottolinea che l’epoca esigeva degli interpreti, esigeva cioè la capacità di realizzare delle traduzioni efficaci, capaci di far riverberare in un idioma ed in categorie culturali ed intellettuali nuove lo spirito della lettera originaria.
Per noi oggi è difficile cogliere il fascino della traduzione: la riteniamo spesso un puro espediente formale, più o meno agevole, per intenderci. I dizionari così ricchi di cui disponiamo ci offrono le varie corrispondenze lessicali e talvolta sembra che tutto si esaurisca nel realizzare qualche equazione terminologica; i traduttori automatici che vengono offerti dal web danno l’idea di un’operazione meccanica. Eppure, non appena li mettiamo alla prova dell’espressione letteraria o filosofica, scopriamo proprio quanto grande sia la componente umana che accompagna ogni traduzione. Lì dove un software genera equivalenze che sfociano nel ridicolo, l’intelligenza dell’uomo plasma capolavori: è il caso della traduzione dei Settanta, ed in tempi più recenti – per rimanere nel medesimo genere – come non pensare alla versione inglese della Sacra Scrittura voluta da Giacomo I e pubblicata nel 1611? Dice bene Avericev: l’epoca – epoca di incontro – esigeva interpreti, e l’arte del traduttore è l’arte umana dell’interprete.
A prima vista si direbbe che l’opera di traduzione avvenga a senso unico, quasi si tratti di passare da un dialetto ad una lingua: traduciamo da Gerusalemme ad Atene perché Atene è il luogo dell’universale, è la lingua franca, mentre Gerusalemme è un luogo particolare, è una regione di periferia con il proprio dialetto. Gerusalemme – e con essa il Vicino Oriente – è il luogo delle tradizioni sapienziali, legate all’esistenza concreta: di fronte ad essa c’è Atene, luogo della speculazione dove il logos contempla le idee, cioè che è stabile, che non cambia, che non soffre della mutevolezza tipica delle esperienze umane;

«Tutto il pensiero degli egizi, dei babilonesi e dei giudei nelle sue massime estrinsecazioni – annota Averincev – non è filosofia, poiché l’oggetto di questo pensiero non è l’“essere” ma la vita, non l’“essenza”, ma l’esistenza, ed esso non opera per “categorie”, ma attraverso gli innumerevoli simboli dell’autosensazione-nel-mondo dell’uomo, escludendo con tutto il suo modo di essere la “sistematicità” propria della filosofia».

Si direbbe allora che il passaggio da Gerusalemme ad Atene sia il passaggio dal particolare all’universale, dall’esistenza all’essenza. Indubbiamente questo passaggio può essere visto come una sorta di impoverimento, di dispersione nel generico, in ciò che freddamente ed astrattamente vale per tutti e non guarda in faccia a nessuno. Sarà questa la preocupazione di Šestov. Anche a questo proposito però è interessante notare ciò che rileva Averincev:

«Qualsiasi passaggio di un concreto fenomeno storico-culturale nella sfera dei valori comuni a tutta l’umanità, significativi per tutti e universali, comporta inevitabilmente un allontanamento dalla concretezza ed esige un briciolo di illusione ottica. Tale è la dialettica di ogni “influenza” e “influsso reciproco”».

Uscire da Gerusalemme ed entrare ad Atene significa certo perdere qualcosa della vita reale, della concretezza incarnata che si riflette in ciascun «dialetto», ma questa perdita è compensata dal fatto di guadagnare qualcosa di comune a tutta l’umanità. Con la traduzione, un fenomeno concreto entra nella sfera dei valori comuni a tutta l’umanità.
È davvero acuta questa osservazione e merita di essere sviluppata: con la traduzione non accade che Gerusalemme si trasformi in Atene, né che si riduca, si corrompa o si perverta in Atene. La traduzione invece mostra proprio ciò che vi è di comune in Atene e Gerusalemme, fa emergere cioè quella trama implicitamente condivisa che sostiene tanto l’ordito di Atene, quanto quello di Gerusalemme e che quindi consente la traduzione. La traduzione è possibile solo se già c’è qualcosa di comune, che nell’atto della traduzione viene alla luce. In questo senso l’universalità non è affatto distacco dalla vita, ma il ritrovamento di ciò che è ugualmente vitale a Gerusalemme come ad Atene.
Per i latini questa dinamica che sostiene ogni traduzione è più facile da mettere in risalto riferendosi alla dimensione gnoseologica, alla vita dell’intelligenza che si apre al mondo ed alla realtà: altro è il «termine», il supporto linguistico di cui si serve una certa tradizione culturale, altro è il «concetto», il supporto intellettuale a cui ogni uomo fa riferimento, proprio per concepire la realtà e le esperienze. Il supporto intellettuale – il concetto – può trovare diverse formulazioni linguistico-culturali, ma rimane sempre lo stesso, per il semplice fatto che non fa riferimento a nessuna lingua, ma fa riferimento alle cose. Il concetto è id in quo cognoscitur, è uno strumento, è il modo di essere delle cose stesse nello spirito; è uno strumento trasparente, che si condensa – per comunicare – in un termine, in un’espressione linguistica. Ora, ogni traduzione fa conto sul concetto, fa cioè conto sul fatto che – al di là dei diversi termini, ma anche al di là delle diverse sfumature culturali – ci sia qualcosa di comune a coloro che si incontrano e stanno cercando di intendersi. Anche quando racconto un’esperienza complessa o esprimo un sentimento, faccio conto che l’altro possa ritrovare qualcosa di analogo nella propria vita, che gli consenta di cogliere di cosa sto parlando. Ha senso dire all’altro che siamo felici o che soffriamo proprio perché l’altro – vivendo o avendo vissuto le stesse cose – può capirci, e capendoci sa anche cosa sta chiedendo una persona che racconta di un dolore o che desidera condividere una soddisfazione. Edith Stein ha dedicato pagine stupende all’empatia, alla capacità umana di essere consonanti con l’altro nel sentire.
Ogni sforzo di traduzione fa quindi affidamento a qualcosa di comune: ecco perché ogni traduzione non ha come risultato solamente il fatto di essersi intesi o di aver reso accessibile un testo, ma più profondamente quello di aver fatto emergere proprio quel qualcosa grazie a cui – id in quo – ci siamo intesi, grazie a cui abbiamo condiviso, in cui ci siamo ri-trovati. Ciò che emerge non è né mio né tuo, ma è nostro: ecco perché nell’incontro autentico tra Gerusalemme e Atene non emerge l’una o l’altra, ma emerge ciò che è patrimonio comune, emergono quei vissuti e quei valori che – come scrive Averincev – sono «significativi per tutti e universali». Forse davvero potremmo ritenere, con il grande filologo, che dall’incontro di Atene e Gerusalemme nasce l’Europa, se l’Europa è lo spazio più ampio che accoglie i due principi creativi conservandone le diversità e facendone emeregere le più fondamentali convergenze.
Si capisce allora meglio quanto sia scorretto leggere un incontro tra storie, tra culture o tra principi creativi diversi come se si trattasse di una traduzione da un dialetto in una lingua, come se si trattasse di un passaggio dalla preistoria alla storia: non così deve essere inteso il rapporto tra Gerusalemme e Atene.
Eppure proprio il passaggio da Gerusalemme ad Atene talvolta si presta a questa lettura. Ciò accade più facilmente quando la traduzione viene assimilata al passaggio dal mondo della fede al mondo della ragione, dal mondo dell’irrazionale o del sentimento al mondo della razionalità e della scientificità. È la deriva lungo cui si smarrisce buona parte del dibattito sulla «laicità» che attraversa l’Europa e forse l’Italia in particolare.
Qui ritroviamo in parte la lettura e certo le preoccupazioni di Šestov:

«Non sarebbe meglio porre chiaramente il dilemma: Atene o Gerusalemme, religione o filosofia?».

Gerusalemme è religione, Atene è filosofia; Gerusalemme fede, Atene ragione. È una simbolica suggestiva, ma troppo facile; possiamo anzi osservare che si tratta di una simbolica mal posta, per una serie di motivi. Anzitutto perché ci rinchiude nella logica della «stadialità» opportunamente denunciata da Averincev, proponendo una prospettiva per la quale la ragione subentra alla fede, la scienza alla religione: d’un tratto ci si trova rinserrati nel teorema del positivismo ottocentesco. In secondo luogo è una simbolica mal posta proprio perché concepisce l’uomo secondo Atene come colui che scalza, dopo la traduzione, l’uomo di Gerusalemme: è cioè una simbolica che si fonda su una antropologia lacerata, incapace di contemplare le diverse forme di conoscenza dell’umano. L’uomo di Atene è l’uomo del raziocinio, non l’uomo dell’intelligenza: ed è quest’uomo (o questo progetto d’uomo) che – a ragione – spaventa Šestov. Ed in terzo luogo è una simbolica mal posta perché vede l’universalità come il prevalere dell’uno sull’altro, mentre l’universalità autentica è la vittoria di entrambi.

Šestov tuttavia invita a riflettere nella cornice di questa simbolica, che è diversa da quella suggerita da Averincev. Noi possiamo considerare questa cornice come una distorsione del rapporto tra Atene e Gerusalemme, così come lo abbiamo finora considerato; però non possiamo ignorare che la cultura europea talvolta si ritrova a ragionare proprio nell’ipotesi di una inconciliabilità dei due principi, di una loro reciproca esclusione. Per questo rimane interessante il discorso di Šestov, e vale la pena di trattenersi ancora per qualche istante con lui.
Religione e filosofia secondo questo grande autore si confrontano contendendosi il trofeo della verità. Quale delle due ha accesso al cuore della realtà, e dunque alla verità delle cose? Šestov propende per la prima, per la religione (o per la conoscenza di fede) ma è interessante capire il motivo di questa preferenza; il grande pensatore russo osserva la filosofia nel suo sviluppo e soprattutto nel suo corso occidentale e moderno e nota il prevalere di una mentalità razionalista, tesa a scomporre la realtà secondo il metro positivista: ciò che è rilevabile sperimentalmente, ciò che può essere costretto entro formule precise ed universali è reale, ciò che sfugge a questo approccio è illusorio, è superstizione, è irreale:

«La ragione che aspirava avidamente alla necessità e all’universalità ha ottenuto ciò che voleva, e i più grandi rappresentanti della filosofia moderna hanno espulso tutto ciò che poteva irritare la ragione in quella regione del “sovrasensibile” da cui non ci arriva nessuna eco, e in cui l’essere si confonde con il non essere in una spenta e tetra indifferenza».

La ragione che si avvita su se stessa tende inesorabilmente a smarrire la sensibilità intelligente per ciò che viene da Gerusalemme: Gerusalemme appare agli occhi di Atene come il luogo delle favole, la città degli illusi e degli sciocchi, dei creduloni. Gerusalemme non è più stimata, è preistoria. Ora, questa ragione che discredita ciò che viene dalla fede si direbbe coincidere con la ragione ateniese che aspira ad universalità e necessità. Il punto chiave consiste nel fatto che questa ragione perde il contatto con la vita, e ciò accade fondamentalmente per due motivi: primo, perché espelle dalla vita tutto ciò che non può sottomettere al metro positivista della sperimentazione – e così si perde tutto ciò che vi era di più caro in Gerusalemme –. Lo sguardo sul mondo di questa ragione – divenuta raziocinio – è quindi parziale, incompleto, non è più integrale, a 360°; secondo, perché l’universalità – essendo stabilità, permanenza, immutabilità – è per questo astrattezza, incapacità di tener conto della particolarità e del movimento che, di fatto, caratterizzano il cammino dell’uomo. Dunque universalità è sinonimo di parzialità e di astrattezza. Giustamente allora Šestov rifiuta l’universalità, perché lamenta che parzialità e astrattezza non possono essere il volto di una verità vitale per l’uomo:

«La verità an sich e il bene an sich non possono essere conosciuti da colui che, in virtù delle condizioni della propria esistenza, si trovi nella necessità di “imparare” e di “adattarsi”. La verità e il bene vivono su un piano completamente diverso. Quanto poco somigliano le parole della Bibbia – signatus est super nos vultus tuus – a quelle rationes aeternae con le quali la filosofia medievale, ipnotizzata dalla sapienza greca, le aveva scambiate!»

L’idea che la verità della vita sia legata all’universalità va decisamente in frantumi in questo quadro d’insieme. La verità che si circonda di formule universali ed astratte non può tener conto dell’umano, né della realtà nella sua vitalità. Allora semplicemente non è verità ma menzogna, inganno. L’uomo si trova quindi posto di fronte ad un aut-aut: o Gerusalemme o Atene; ma è avvertito: sulle strade di Atene non troverà la verità che cerca, troverà formule impersonali che finiranno per schiaciarlo. Scrive ancora Šestov:

«Ammaliato dalle parole del tentatore – eritis scientes – Adamo ha scambiato la libertà, che caratterizzava il suo rapporto con il Creatore che ascolta e comprende, con la dipendenza nei confronti delle verità indifferenti e impersonali, che non comprendono e non ascoltano niente, e attuano autonomamente il potere del quale si sono impadronite».

Con Šestov ci stiamo allora chiedendo se le ragioni della vita impongono di rinunciare alla tentazione di Atene e quindi all’universalità; ci chiediamo se il rispetto della persona e dei suoi vissuti non esiga la rinuncia a qualsiasi pretesa di verità astratta ed universale: l’affermazione di una verità universale – e più ancora di un complesso di norme universali dedotte da questa verità – non finirà necessariamente per rendere sordi alle ragioni del particolare e per calpestare la persona? Non rischia di diventare invivibile, disumano, un mondo regolato da verità indifferenti e impersonali? Non è questo proprio – la disumanità – l’esito del progetto alternativo suggerito dall’antico serpente? La violenza non sorge proprio quando entra in campo l’idea di verità universale?
È interessante notare che anche Jacques Maritain rifletteva si medesimi interrogativi:

«Il problema della verità e della fraternità umana è importante per le società democratiche. […] Se ognuno cominciasse ad imporre le proprie convinzioni e la verità nella quale crede a tutti i suoi concittadini, la vita comune non finirebbe forse per diventare impossibile? È evidente. Sì, ma è facile, troppo facile, fare ancora un passo e chiedere: se ognuno tiene fermamente alle proprie convinzioni, non prenderà ad imporle a tutti gli altri? Cosicché alla fine, la vita comune diventerà impossibile se un cittadino qualsiasi aderisce fermamente alle proprie convinzioni e crede ad una determinata verità?»

Giungiamo al nodo della preoccupazione in fondo sollevata da Šestov, precisandolo proprio grazie alle osservazioni di Maritain. Forse, il cuore del problema non risiede nella pretesa che vi siano delle verità universali o una «cornice antropologica» valevole per tutti gli uomini, ma piuttosto nel modo in cui gli uomini intendono raccordare i vissuti personali – propri ed altrui – a queste verità.
Ed allora usciamo dalla cornice di Šestov e ritorniamo nel solco delle riflessioni di Averincev, lì dove Atene e Gerusalemme non simboleggiano due approcci alternativi al reale, ma due storie chiamate a scoprire ciò che le accomuna, ciò che entrambe riconoscono come vitale, ciò su cui è possibile fondare la traduzione.
In effetti il problema del rapporto tra il particolare e l’universale a cui pure ci richiamava Šestov diventa il problema del rapporto tra uomini che radicano la propria esistenza in prospettive e valori non coincidenti o talvolta molto distanti: l’uomo di Gerusalemme e quello di Atene riusciranno insieme nello sforzo di traduzione? Riusciranno ad attingere a ciò che li lega, a ciò che già condividono e che per questo costituisce un «universale vivente»? Oppure ingaggeranno una disputa accademica, fermandosi alle diversità dei termini e delle codifiche delle rispettive tradizioni, di fatto facendo quadrato – quasi paradossalmente – ciascuno attorno al proprio sistema di particolarità astratte, cioè non più viventi, non più incarnate ma incorniciate come un dipinto da guardare ma da non toccare?
Noi qui tocchiamo molto probabilmente un punto delicato, che in realtà si trova a monte di qualsiasi tentativo di traduzione e, nella traduzione, di dialogo tra persone appartenenti a culture e tradizioni diverse. Potremmo quasi dire che vi è un necessario preliminare al dialogo, e questo preliminare è il vivere al cuore della tradizione, della cultura e della lingua (anche intesa nel senso delle categorie intellettuali) con cui ci si esprime; vivere al cuore della tradizione significa impegnarsi a leggere ciò che passa nella propria esistenza secondo gli strumenti e la sapienza della tradizione, significa distendere la mens della tradizione su ciò che si vive, che si attende, su ciò di cui si soffre, su ciò di cui intensamente si gioisce; significa quindi rinnovare la tradizione, perché la si interroga continuamente dinanzi all’esperienza. Tutto questo, che effettivamente è vita, vita meditata del singolo – e certo del singolo inserito in una comunità – è ciò che potremmo chiamare «particolarità vivente». E con Šestov crediamo che Dio si pieghi sulla particolarità vivente, sulla persona, non su una categoria o su un’essenza.
Ciò che non è particolarità vivente, ma al contrario particolarità astratta è la semplice conoscenza di una tradizione, l’essere informati sulla storia, sugli usi sulle categorie intellettuali. Anche tutto questo è prezioso, ma non è manchevole dell’essenziale perché avvenga una traduzione: è manchevole di vita.
Volendo accogliere le preoccupazioni di Šestov ed insieme le acute osservazioni di Averincev noi potremmo forse dire che solo chi vive al cuore di una tradizione può riuscire nella traduzione e nella scoperta dell’universale, appunto perché conosce e sperimenta ciò di cui parla, ed è interessato a scoprire se l’altro ospita e coltiva le stesse cose, pur codificandole diversamente. È interessato a capire come vengono espressi altrove i propri vissuti, con quali sfumature, con quali ulteriori scorci. In una parola può tradurre e dialogare chi è interessato all’universale vivente, non certo chi intende ingaggiare una disputa per far prevalere la propria posizione.
Atene e Gerusalemme si incontrano – come ricorda Averincev – nella felice opera dei Settanta perché in quel momento prevale una traduzione ispirata, in cui due diversi mondi si adoperano perché i nuovi termini e le nuove categorie esprimano al meglio gli antichi concetti, e possono farlo perché appunto si tratta di uomini che, al di là della loro mitizzazione, certamente vivono la tradizione.
Non appena verrà meno l’intuizione del valore dell’universale vivente che impercettibilmente affiora, ecco che Atene e Gerusalemme si divideranno ancora, Gerusalemme si rinchiuderà su se stessa e sulla propria particolarità. Ma c’è da chiedersi se ormai questa particolarità non sia disseccata, non sia divenuta astratta.
Occorre ancora precisare qualcosa: cercare l’universalità vivente non è mirare a sincretismi artificiali. Il punto è che il risultato più interessante dello sforzo di traduzione è che ciascuno ritorni alla propria tradizione portando con sé qualche luce in più, in modo quasi da rendere più luminoso ciò che si è scoperto essere patrimonio condiviso tra gli uomini. Non è forse questa l’anima di quell’altra impresa di traduzione, molto più recente, che ha portato alla codifica dei Diritti universali dell’uomo? Uomini di tradizioni diverse, uomini appassionati che vivevano le rispettive tradizioni, sono riusciti ad esprimere insieme l’universalità vivente, tornando poi ciascuno alla propria storia ma portando con sé qualcosa dell’altro.
Ogni sforzo di traduzione trova la propria verità in questo movimento di andata e di ritorno, e probabilmente questo vale ad ogni livello: linguistico, culturale, filosofico e religioso. Maritain sottolineava tutto questo a proposito della reciproca apertura tra prospettive di pensiero:

Voglio notare, en passant, che una tale apertura presuppone uno sforzo dell’intelletto per trascendere, per un istante, il suo proprio linguaggio concettuale al fine di entrare nel linguaggio concettuale degli altri, ritornando poi da quel viaggio dopo aver colto l’intuizione di cui vive la filosofia nuova in questione».

Con Averincev possiamo allora chiederci se effettivamente l’Europa sia stata il luogo in cui Atene e Gerusalemme si sono nel tempo incontrate. Con Šestov possiamo condividere qualche preoccupazione.
Se osserviamo la storia è difficile negare che il cristianesimo abbia fatto emergere l’universale vivente differentemente celato in questi due principi creativi. Tuttavia, dinanzi alle sfide dell’oggi, la domanda che dobbiamo porci non è tanto se questo patrimonio storico sia o meno reale, ma se sono vive e vivaci le tradizioni che lo custodiscono; non solo, dobbiamo anche chiederci se l’Europa contemporanea sia fotografabile in termini di tradizioni viventi, perché forse questo è il vero problema del dialogo tra diversi.
Al pensiero che vorrebbe promuovere il dialogo attenuando le identità, al pensiero che propende per i sincretismi artificiali ed astratti (tra cui talvolta anche quelli delle Carte Costituzionali scritte con bilancino burocratico) occorre opporre una prospettiva di rivalorizzazione delle tradizioni; non si tratta però – come più spesso accade – di puntare su una valorizzazione tutta concentrata sui simboli esteriori: occorre alimentare la particolarità vivente, incoraggiare alla riscoperta della propria tradizione, ad attestarsi al cuore di essa nel vivere, perché questo è il presupposto dell’incontrarsi e del dialogare. Occorre far capire che l’universalità a cui può tendere l’Europa non è l’universalità astratta delle regole o della media delle aspirazioni nazionali: ben più profondamente è l’universalità vivente data dal patrimonio incarnato di senso dell’umano e del divino che ciascuna tradizione a proprio modo coglie ed a proprio modo esprime.
Paradossalmente diremo persino che se vogliamo trovare ciò che ci accomuna, se vogliamo scoprire l’universale vivente e su questo costruire una casa comune – comune ed aperta ad altre tradizioni – il passo da fare è quello che ci conduce risolutamente ciascuno a rivitalizzare la propria particolarità, ad esplicitare il proprio vivere la tradizione nel confronto con altre tradizioni. Ancora una volta rientrare in se stessi (e nella propria tradizione) è il modo migliore per dialogare con gli altri.

Ho voluto raccogliere queste suggestioni da Averincev e più marginalmente da Šestov, provando ad esprimerle secondo la forma mentis che mi è più propria, in cui si trova molto Maritain e più profondamente ancora San Tommaso. A tutti è chiaro che non si tratta di una ricostruzione di ciò che ciascuno di questi autori potevano pensare del rapporto tra fede e ragione, tra religione e filosofia: piuttosto si tratta della sforzo – sempre appassionante – di pensare in compagnia di voci diverse, provando a captarne le intuizioni ed a lasciarsi provocare. Nessuno però creda che questo sia un gioco: la possibilità e la modalità dell’incontro tra diversi è uno dei «casi seri» della vita dell’uomo, su cui è e sarà importante continuare a riflettere e soprattutto ad esercitarci assieme.
* g.grandi@maritain.eu
S. Averincev, Atene e Gerusalemme. Contrapposizione e incontro di due principi creativi (1971-1973), Donzelli, Roma, 1998.
Op. cit., p. 11.
Cfr. Op. cit., pp. 40-41.
Op. cit., p. 48.
Non considereremo in questa riflessione il notevole apporto di P. Ricoeur al tema della traduzione, se non segnalando qui in nota, tra i tanti scritti, il saggio La traduction, un choix culturel, in “Esprit”, n. 6, juin 1999, pp. 8-19, riproposto recentemente in traduzione italiana con il titolo Il paradigma della traduzione, in Il giusto/2, Effatà, Torino, 2007, pp. 133-149. Di fatto si coglierà come gli autori con cui qui ci si confronta abbiano tematizzato i medesimi snodi, forse con qualche affondo più deciso dovuto alla loro maggiore disponibilità per una riflessione di tipo ontologico.
Il rapporto tra dialetto e lingua rinvia sommessamente alla cornice proposta da J. Habermas, secondo cui – in fin dei conti – le prospettive culturali ed intellettuali facenti capo a tradizioni di fede (Gerusalemme) sarebbero dialetti che, per farsi intendere nella polis, dovrebbero accettare di essere tradotti in termini laici (Atene), ovvero nell’unica lingua universale. Non ci soffermiamo su questa proposa, se non sollevando il dubbio che questa impostazione forse interessante dal punto di vista metodologico, di fatto porta con sé una certa precomprensione dei rapporti tra credenti e non credenti, quasi che i primi fossero la preistoria del pensare ed i secondi il suo progresso. Vi è l’idea che l’autentica prospettiva universale, a cui le altre vanno ricondotte, sia quella del non-credente: in quest’ottica ciò che si confonde facilmente è l’impegno per una argomentazione ragionevole (che è di tutti, ed anche dei credenti dacché sviluppano una teologia) con i contenuti ed il messaggio oggetto della comunicazione (ed in questo caso anche il non-credente di fatto si affida ad una ontologia, che il più delle volte non è in grado di esplicitare ed a cui, tecnicamente, crede). Ecco a tal proposito un cenno significativo di Habermas: «Ciascuno deve sapere ed accettare che oltre la soglia istituzionale che separa la sfera pubblica informale da parlamenti, tribunali, ministeri e amministrazioni, contano solo le ragioni laiche. È sufficiente a questo scopo la capacità epistemica di considerare le proprie convinzioni religiose anche dall’esterno, riflessivamente, e di collegarle a ragioni laiche. I cittadini credenti possono benissimo riconoscere questa “riserva istituzionale di traduzione” senza dover scindere la loro identità in parti pubbliche e private non appena partecipino a pubbliche discussioni. Essi dovrebbero quindi poter esprimere e motivare le loro convinzioni in un linguaggio religioso anche quando non trovano per esse “traduzioni” laiche. Ciò non deve assolutamente estraniare i cittadini “monoglotti” dal processo decisionale della politica, perché anche quando adducono ragioni religiose, essi prendono posizione con intento politico. Anche quando il linguaggio religioso è l’unico che essi parlano, e quando le opinioni motivate religiosamente sono l’unico contributo che sanno o vogliono dare al dibattito politico, essi si sentono membri di una civitas terrena che li legittima come autori delle leggi cui sono soggetti come destinatari. Poiché hanno la facoltà di esprimersi in linguaggio religioso solo a condizione di riconoscere la riserva istituzionale di traduzione, essi, fidando nell’opera cooperativa di traduzione dei loro concittadini, possono sentirsi partecipi del processo legislativo, anche se in esso contano solo le ragioni laiche». Cfr. J. Habermas, Zwischen Naturalismus und Religion. Philosophische Aufsätze, Suhrkampo Verlag, Frankfurt am Main, 2005; tr. it.: Tra scienza e fede (2005), Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 33-34.
Op. cit., p. 14.
Op. cit., p. 58.
L. Šestov, Atene e Gerusalemme (1923-1935), Bompiani, Milano, 2005, p. 115.
Op. cit., p. 131.
Op. cit., p. 939.
Op. cit., p. 941.
J. Maritain, Tolleranza e verità (1957), in Il filosofo nella società (1960), Morcelliana, Brescia, 1976, p. 62.
«Per l’ebreo credente, permeato delle idee sulla santità dell’incarnazione orale e scritta del verbo divino, la seconda nascita della Torah rappresentava un avvenimento tanto importante , da porre il suo intelletto di fronte a una scelta: vedere in  quanto si era verificato un sacrilegio o un miracolo. Gli ebrei di quell’epoca preferirono considerare i Septuaginta un miracolo, una nuova manifestazione della rivelazione. […] Per gli autori giudaici del I secolo d. C. i Septuaginta sono la Scrittura autorevole, in tutto il senso religioso del termine. A ciò si giunge attraverso seri progressi nello spirito stesso del giudaismo: nell’epoca dell’ellenismo e nei primi decenni dopo la nascita di Cristo questo spirito era così universalistico e vasto come mai in precedenza e mai successivamente». Cfr. S. Averincev, Atene e Gerusalemme (1971-1973), cit., pp. 51-52.
«Solo quando la tragedia delle due guerre giudaiche (66-73 d.C. e 132-135 d.C.) pose fine ai sogni universalistici, e i circoli rabbinici, bruscamente rinserratisi nella propria esclusività nazionale, si trovarono a dover disputare con gli eredi degli universalisti alessandrini, i cristiani, l’atteggiamento del giudaismo ortodosso verso i Septuaginta mutò nettamente». S. Averincev, Atene e Gerusalemme (1971-1973), cit., p. 52.
Al tempo stesso non è da trascurare il fatto che proprio lì dove viene meno l’attenzione genuina all’umano ed alla sua piena realizzazione, anche lo sforzo di traduzione viene compromesso. È accaduto qualcosa di simile all’atto della traduzione della Carta dei Diritti nella lingua russa: lì alcune pressioni ideologiche hanno prodotto una resa terminologica diretta non più a tradurre i concetti (l’universale vivente) ma a tradirla. E tuttavia proprio la possibilità di un tradimento è un’ulteriore segno che l’universale vivente è stato colto, ma appunto si è voluto ignorarlo o cancellarlo.
Op. cit., p. 44.
«Gli interpreti alessandrini non risolsero il problema, superiore alle loro forze, della sintesi tra “Atene” e “Gerusalemme”; saremo loro grati per averlo almeno posto. A risolverlo doveva essere, con tutta la sua esistenza, la cultura europea». S. Averincev, Atene e Gerusalemme (1971-1973), cit, p. 63.

Atene e Gerusalemme: vie del dialogo

Centro Studi Veneto «Jacques Maritain»
Università degli Studi di Padova – Dipartimento di Filosofia

According to Sergej Averincev, «Athens and Jerusalem», mean «the contrast and the meeting of two creative principles». We have to read this two creative principles as the epiphany of different – and equally fundamental – human approaches to reality, not as two «stages» of a unique evolutionary movement of Culture, a movement in which the first principle – Jerusalem – would be the pre-history of the second one – Athens –. The Hebraic-christian universe is not the prehistory of the Greek universe. It is another history. In this perspective, we can understand clearly that a meeting of different creative principles is not a matter of translation from a dialect into a language, as a passage from prehistory to history could be.
Moreover it will be clear that every effort of translation counts on something common between those who are involved in translation. So every translation does not have as a result only mutual understanding, but also the emergence of those elements which make understanding and sharing possible. What comes to the surface is neither mine nor yours, but ours. And what is really ours is real life and its deep values that we all share, although we express them in different ways.
The problem of the relationship between universality (what we deeply share) and particularity (the way we express it) becomes the problem of the relationship between people whose existence is grounded in different experiences and sets of values. A question arises: Jerusalem and Athens will succeed in their translation? Will they discover what they already share, what we can call the living universality?
It comes to surface a sensitive point, which is the premise of every attempt of translation and of every effective dialogue between people who belong to different cultures and traditions. We could say that there is a preliminary condition for dialogue, and this preliminary condition is living in the heart of a tradition, which means the effort to read what happens in one’s own existence according to the wisdom of the tradition in which one lives. This means therefore to renew the tradition, because it is continuously questioned by the experience. This individual capacity to live and to think in a tradition is what we can call “living particularity”. And therefore, considering some worries of Šestov and the remarks of Averincev, we could perhaps say that only who lives in the heart of a tradition (living particularity) can succeed in translation and in discovering the living universality.

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Oriente e Occidente: il cammino avviato da questo gruppo di ricerca nel 2001 quest’anno può fare idealmente tappa su un simbolo altrettanto suggestivo, il binomio «Atene-Gerusalemme». In fondo, proprio come voleva Sergej Averincev, continuiamo ad esplorare la contrapposizione e l’incontro di due principi creativi; «contrapposizione» significa diversità, quella diversità che si fa quasi incommensurabilità nella lettura che il filologo russo proponeva all’inizio degli anni Settanta. Atene e Gerusalemme – intese come culture, come letterature ma anche come simboli – esigono misure diverse, e quindi l’una non può essere metro dell’altra, e l’orizzonte possibile è la coesistenza: insieme ed alla pari. Ma «contrapposizione» può significare anche inconciliabilità, avversità: qui Atene e Gerusalemme assumono il tratto della penna di Šestov, e la coesistenza difficilmente si fa orizzonte.
E tuttavia non c’è solo contrapposizione, per Averincev c’è anche «incontro»: un incontro che non è sintesi, non è fusione ma neppure semplice coesistenza e reciproca tolleranza. È qualcosa di diverso, è un camminare fianco a fianco, sostenendosi a vicenda.
Le suggestioni che proverei a raccogliere si muovono entro questi confini e provano a dar voce – una voce immancabilmente occidentale e latina – soprattutto a quelle intuizioni che hanno animato il percorso intrapreso insieme e che credo stiano via via, nel tempo, trovando espressione nel nostro incontrarci, ben al di là dei temi su cui si concentrano i nostri seminari.

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Il saggio “Atene e Gerusalemme” è una perla di grande valore nella riflessione di Averincev, perché assume una caratura culturale molto significativa: si tratta di accogliere la diversità (diversità culturale, intellettuale, religiosa, letteraria) di due principi creativi, ma appunto di imparare a leggerla come l’epifania di approcci alla realtà ugualmente fondamentali nell’umano, non come due «stadi» di un unico movimento evolutivo della cultura in cui uno – Gerusalemme – sarebbe la preistoria dell’altro – Atene –. L’universo ebraico-cristiano non è la preistoria dell’universo greco. È un’altra storia.

«Non è forse più esatto dire – osserva Averincev – che le letterature del Vicino Oriente antico, considerate nel loro complesso, e la letteratura dell’antica Grecia, presa anch’essa nel suo complesso, sono fenomeni di ordine concettualmente diverso, che non si prestano a nessun confronto nelle categorie del “livello” o della “stadialità”? Che insomma non si tratta di stadi di uno stesso cammino, ma piuttosto di due cammini differenti, che da un unico punto iniziale si sono separati, prendendo due diverse direzioni?».

L’interrogativo dinanzi a cui ci porta Averincev allora è questo: cosa accade quando due cammini, due storie si incontrano? Per capire ciò che può accadere è possibile considerare uno dei passaggi storicamente e simbolicamente cruciali dell’incontro tra la storia del Vicino Oriente e quella dell’antica Grecia – forse le uniche storie in grado di incontrarsi, proprio per la centralità che entrambe attribuivano alla parola, al logos – : si tratta della traduzione dei Settanta, la monumentale opera di redazione in greco dell’Antico Testamento. L’incontro tra Atene e Gerusalemme si sostanzia quindi in una parola: traduzione.

«I popoli dell’Oriente, desiderosi di esibire i tesori della propria saggezza nazionale al mercato ellenistico delle idee, col suo carattere universale, erano costretti a rivestire preliminarmente tali tesori con l’involucro delle forme lessicali, e per quanto possibile anche intellettuali, greche. L’epoca esigeva degli interpreti».

Molto opportunamente Averincev sottolinea che l’epoca esigeva degli interpreti, esigeva cioè la capacità di realizzare delle traduzioni efficaci, capaci di far riverberare in un idioma ed in categorie culturali ed intellettuali nuove lo spirito della lettera originaria.
Per noi oggi è difficile cogliere il fascino della traduzione: la riteniamo spesso un puro espediente formale, più o meno agevole, per intenderci. I dizionari così ricchi di cui disponiamo ci offrono le varie corrispondenze lessicali e talvolta sembra che tutto si esaurisca nel realizzare qualche equazione terminologica; i traduttori automatici che vengono offerti dal web danno l’idea di un’operazione meccanica. Eppure, non appena li mettiamo alla prova dell’espressione letteraria o filosofica, scopriamo proprio quanto grande sia la componente umana che accompagna ogni traduzione. Lì dove un software genera equivalenze che sfociano nel ridicolo, l’intelligenza dell’uomo plasma capolavori: è il caso della traduzione dei Settanta, ed in tempi più recenti – per rimanere nel medesimo genere – come non pensare alla versione inglese della Sacra Scrittura voluta da Giacomo I e pubblicata nel 1611? Dice bene Avericev: l’epoca – epoca di incontro – esigeva interpreti, e l’arte del traduttore è l’arte umana dell’interprete.
A prima vista si direbbe che l’opera di traduzione avvenga a senso unico, quasi si tratti di passare da un dialetto ad una lingua: traduciamo da Gerusalemme ad Atene perché Atene è il luogo dell’universale, è la lingua franca, mentre Gerusalemme è un luogo particolare, è una regione di periferia con il proprio dialetto. Gerusalemme – e con essa il Vicino Oriente – è il luogo delle tradizioni sapienziali, legate all’esistenza concreta: di fronte ad essa c’è Atene, luogo della speculazione dove il logos contempla le idee, cioè che è stabile, che non cambia, che non soffre della mutevolezza tipica delle esperienze umane;

«Tutto il pensiero degli egizi, dei babilonesi e dei giudei nelle sue massime estrinsecazioni – annota Averincev – non è filosofia, poiché l’oggetto di questo pensiero non è l’“essere” ma la vita, non l’“essenza”, ma l’esistenza, ed esso non opera per “categorie”, ma attraverso gli innumerevoli simboli dell’autosensazione-nel-mondo dell’uomo, escludendo con tutto il suo modo di essere la “sistematicità” propria della filosofia».

Si direbbe allora che il passaggio da Gerusalemme ad Atene sia il passaggio dal particolare all’universale, dall’esistenza all’essenza. Indubbiamente questo passaggio può essere visto come una sorta di impoverimento, di dispersione nel generico, in ciò che freddamente ed astrattamente vale per tutti e non guarda in faccia a nessuno. Sarà questa la preocupazione di Šestov. Anche a questo proposito però è interessante notare ciò che rileva Averincev:

«Qualsiasi passaggio di un concreto fenomeno storico-culturale nella sfera dei valori comuni a tutta l’umanità, significativi per tutti e universali, comporta inevitabilmente un allontanamento dalla concretezza ed esige un briciolo di illusione ottica. Tale è la dialettica di ogni “influenza” e “influsso reciproco”».

Uscire da Gerusalemme ed entrare ad Atene significa certo perdere qualcosa della vita reale, della concretezza incarnata che si riflette in ciascun «dialetto», ma questa perdita è compensata dal fatto di guadagnare qualcosa di comune a tutta l’umanità. Con la traduzione, un fenomeno concreto entra nella sfera dei valori comuni a tutta l’umanità.
È davvero acuta questa osservazione e merita di essere sviluppata: con la traduzione non accade che Gerusalemme si trasformi in Atene, né che si riduca, si corrompa o si perverta in Atene. La traduzione invece mostra proprio ciò che vi è di comune in Atene e Gerusalemme, fa emergere cioè quella trama implicitamente condivisa che sostiene tanto l’ordito di Atene, quanto quello di Gerusalemme e che quindi consente la traduzione. La traduzione è possibile solo se già c’è qualcosa di comune, che nell’atto della traduzione viene alla luce. In questo senso l’universalità non è affatto distacco dalla vita, ma il ritrovamento di ciò che è ugualmente vitale a Gerusalemme come ad Atene.
Per i latini questa dinamica che sostiene ogni traduzione è più facile da mettere in risalto riferendosi alla dimensione gnoseologica, alla vita dell’intelligenza che si apre al mondo ed alla realtà: altro è il «termine», il supporto linguistico di cui si serve una certa tradizione culturale, altro è il «concetto», il supporto intellettuale a cui ogni uomo fa riferimento, proprio per concepire la realtà e le esperienze. Il supporto intellettuale – il concetto – può trovare diverse formulazioni linguistico-culturali, ma rimane sempre lo stesso, per il semplice fatto che non fa riferimento a nessuna lingua, ma fa riferimento alle cose. Il concetto è id in quo cognoscitur, è uno strumento, è il modo di essere delle cose stesse nello spirito; è uno strumento trasparente, che si condensa – per comunicare – in un termine, in un’espressione linguistica. Ora, ogni traduzione fa conto sul concetto, fa cioè conto sul fatto che – al di là dei diversi termini, ma anche al di là delle diverse sfumature culturali – ci sia qualcosa di comune a coloro che si incontrano e stanno cercando di intendersi. Anche quando racconto un’esperienza complessa o esprimo un sentimento, faccio conto che l’altro possa ritrovare qualcosa di analogo nella propria vita, che gli consenta di cogliere di cosa sto parlando. Ha senso dire all’altro che siamo felici o che soffriamo proprio perché l’altro – vivendo o avendo vissuto le stesse cose – può capirci, e capendoci sa anche cosa sta chiedendo una persona che racconta di un dolore o che desidera condividere una soddisfazione. Edith Stein ha dedicato pagine stupende all’empatia, alla capacità umana di essere consonanti con l’altro nel sentire.
Ogni sforzo di traduzione fa quindi affidamento a qualcosa di comune: ecco perché ogni traduzione non ha come risultato solamente il fatto di essersi intesi o di aver reso accessibile un testo, ma più profondamente quello di aver fatto emergere proprio quel qualcosa grazie a cui – id in quo – ci siamo intesi, grazie a cui abbiamo condiviso, in cui ci siamo ri-trovati. Ciò che emerge non è né mio né tuo, ma è nostro: ecco perché nell’incontro autentico tra Gerusalemme e Atene non emerge l’una o l’altra, ma emerge ciò che è patrimonio comune, emergono quei vissuti e quei valori che – come scrive Averincev – sono «significativi per tutti e universali». Forse davvero potremmo ritenere, con il grande filologo, che dall’incontro di Atene e Gerusalemme nasce l’Europa, se l’Europa è lo spazio più ampio che accoglie i due principi creativi conservandone le diversità e facendone emeregere le più fondamentali convergenze.
Si capisce allora meglio quanto sia scorretto leggere un incontro tra storie, tra culture o tra principi creativi diversi come se si trattasse di una traduzione da un dialetto in una lingua, come se si trattasse di un passaggio dalla preistoria alla storia: non così deve essere inteso il rapporto tra Gerusalemme e Atene.
Eppure proprio il passaggio da Gerusalemme ad Atene talvolta si presta a questa lettura. Ciò accade più facilmente quando la traduzione viene assimilata al passaggio dal mondo della fede al mondo della ragione, dal mondo dell’irrazionale o del sentimento al mondo della razionalità e della scientificità. È la deriva lungo cui si smarrisce buona parte del dibattito sulla «laicità» che attraversa l’Europa e forse l’Italia in particolare.
Qui ritroviamo in parte la lettura e certo le preoccupazioni di Šestov:

«Non sarebbe meglio porre chiaramente il dilemma: Atene o Gerusalemme, religione o filosofia?».

Gerusalemme è religione, Atene è filosofia; Gerusalemme fede, Atene ragione. È una simbolica suggestiva, ma troppo facile; possiamo anzi osservare che si tratta di una simbolica mal posta, per una serie di motivi. Anzitutto perché ci rinchiude nella logica della «stadialità» opportunamente denunciata da Averincev, proponendo una prospettiva per la quale la ragione subentra alla fede, la scienza alla religione: d’un tratto ci si trova rinserrati nel teorema del positivismo ottocentesco. In secondo luogo è una simbolica mal posta proprio perché concepisce l’uomo secondo Atene come colui che scalza, dopo la traduzione, l’uomo di Gerusalemme: è cioè una simbolica che si fonda su una antropologia lacerata, incapace di contemplare le diverse forme di conoscenza dell’umano. L’uomo di Atene è l’uomo del raziocinio, non l’uomo dell’intelligenza: ed è quest’uomo (o questo progetto d’uomo) che – a ragione – spaventa Šestov. Ed in terzo luogo è una simbolica mal posta perché vede l’universalità come il prevalere dell’uno sull’altro, mentre l’universalità autentica è la vittoria di entrambi.

Šestov tuttavia invita a riflettere nella cornice di questa simbolica, che è diversa da quella suggerita da Averincev. Noi possiamo considerare questa cornice come una distorsione del rapporto tra Atene e Gerusalemme, così come lo abbiamo finora considerato; però non possiamo ignorare che la cultura europea talvolta si ritrova a ragionare proprio nell’ipotesi di una inconciliabilità dei due principi, di una loro reciproca esclusione. Per questo rimane interessante il discorso di Šestov, e vale la pena di trattenersi ancora per qualche istante con lui.
Religione e filosofia secondo questo grande autore si confrontano contendendosi il trofeo della verità. Quale delle due ha accesso al cuore della realtà, e dunque alla verità delle cose? Šestov propende per la prima, per la religione (o per la conoscenza di fede) ma è interessante capire il motivo di questa preferenza; il grande pensatore russo osserva la filosofia nel suo sviluppo e soprattutto nel suo corso occidentale e moderno e nota il prevalere di una mentalità razionalista, tesa a scomporre la realtà secondo il metro positivista: ciò che è rilevabile sperimentalmente, ciò che può essere costretto entro formule precise ed universali è reale, ciò che sfugge a questo approccio è illusorio, è superstizione, è irreale:

«La ragione che aspirava avidamente alla necessità e all’universalità ha ottenuto ciò che voleva, e i più grandi rappresentanti della filosofia moderna hanno espulso tutto ciò che poteva irritare la ragione in quella regione del “sovrasensibile” da cui non ci arriva nessuna eco, e in cui l’essere si confonde con il non essere in una spenta e tetra indifferenza».

La ragione che si avvita su se stessa tende inesorabilmente a smarrire la sensibilità intelligente per ciò che viene da Gerusalemme: Gerusalemme appare agli occhi di Atene come il luogo delle favole, la città degli illusi e degli sciocchi, dei creduloni. Gerusalemme non è più stimata, è preistoria. Ora, questa ragione che discredita ciò che viene dalla fede si direbbe coincidere con la ragione ateniese che aspira ad universalità e necessità. Il punto chiave consiste nel fatto che questa ragione perde il contatto con la vita, e ciò accade fondamentalmente per due motivi: primo, perché espelle dalla vita tutto ciò che non può sottomettere al metro positivista della sperimentazione – e così si perde tutto ciò che vi era di più caro in Gerusalemme –. Lo sguardo sul mondo di questa ragione – divenuta raziocinio – è quindi parziale, incompleto, non è più integrale, a 360°; secondo, perché l’universalità – essendo stabilità, permanenza, immutabilità – è per questo astrattezza, incapacità di tener conto della particolarità e del movimento che, di fatto, caratterizzano il cammino dell’uomo. Dunque universalità è sinonimo di parzialità e di astrattezza. Giustamente allora Šestov rifiuta l’universalità, perché lamenta che parzialità e astrattezza non possono essere il volto di una verità vitale per l’uomo:

«La verità an sich e il bene an sich non possono essere conosciuti da colui che, in virtù delle condizioni della propria esistenza, si trovi nella necessità di “imparare” e di “adattarsi”. La verità e il bene vivono su un piano completamente diverso. Quanto poco somigliano le parole della Bibbia – signatus est super nos vultus tuus – a quelle rationes aeternae con le quali la filosofia medievale, ipnotizzata dalla sapienza greca, le aveva scambiate!»

L’idea che la verità della vita sia legata all’universalità va decisamente in frantumi in questo quadro d’insieme. La verità che si circonda di formule universali ed astratte non può tener conto dell’umano, né della realtà nella sua vitalità. Allora semplicemente non è verità ma menzogna, inganno. L’uomo si trova quindi posto di fronte ad un aut-aut: o Gerusalemme o Atene; ma è avvertito: sulle strade di Atene non troverà la verità che cerca, troverà formule impersonali che finiranno per schiaciarlo. Scrive ancora Šestov:

«Ammaliato dalle parole del tentatore – eritis scientes – Adamo ha scambiato la libertà, che caratterizzava il suo rapporto con il Creatore che ascolta e comprende, con la dipendenza nei confronti delle verità indifferenti e impersonali, che non comprendono e non ascoltano niente, e attuano autonomamente il potere del quale si sono impadronite».

Con Šestov ci stiamo allora chiedendo se le ragioni della vita impongono di rinunciare alla tentazione di Atene e quindi all’universalità; ci chiediamo se il rispetto della persona e dei suoi vissuti non esiga la rinuncia a qualsiasi pretesa di verità astratta ed universale: l’affermazione di una verità universale – e più ancora di un complesso di norme universali dedotte da questa verità – non finirà necessariamente per rendere sordi alle ragioni del particolare e per calpestare la persona? Non rischia di diventare invivibile, disumano, un mondo regolato da verità indifferenti e impersonali? Non è questo proprio – la disumanità – l’esito del progetto alternativo suggerito dall’antico serpente? La violenza non sorge proprio quando entra in campo l’idea di verità universale?
È interessante notare che anche Jacques Maritain rifletteva si medesimi interrogativi:

«Il problema della verità e della fraternità umana è importante per le società democratiche. […] Se ognuno cominciasse ad imporre le proprie convinzioni e la verità nella quale crede a tutti i suoi concittadini, la vita comune non finirebbe forse per diventare impossibile? È evidente. Sì, ma è facile, troppo facile, fare ancora un passo e chiedere: se ognuno tiene fermamente alle proprie convinzioni, non prenderà ad imporle a tutti gli altri? Cosicché alla fine, la vita comune diventerà impossibile se un cittadino qualsiasi aderisce fermamente alle proprie convinzioni e crede ad una determinata verità?»

Giungiamo al nodo della preoccupazione in fondo sollevata da Šestov, precisandolo proprio grazie alle osservazioni di Maritain. Forse, il cuore del problema non risiede nella pretesa che vi siano delle verità universali o una «cornice antropologica» valevole per tutti gli uomini, ma piuttosto nel modo in cui gli uomini intendono raccordare i vissuti personali – propri ed altrui – a queste verità.
Ed allora usciamo dalla cornice di Šestov e ritorniamo nel solco delle riflessioni di Averincev, lì dove Atene e Gerusalemme non simboleggiano due approcci alternativi al reale, ma due storie chiamate a scoprire ciò che le accomuna, ciò che entrambe riconoscono come vitale, ciò su cui è possibile fondare la traduzione.
In effetti il problema del rapporto tra il particolare e l’universale a cui pure ci richiamava Šestov diventa il problema del rapporto tra uomini che radicano la propria esistenza in prospettive e valori non coincidenti o talvolta molto distanti: l’uomo di Gerusalemme e quello di Atene riusciranno insieme nello sforzo di traduzione? Riusciranno ad attingere a ciò che li lega, a ciò che già condividono e che per questo costituisce un «universale vivente»? Oppure ingaggeranno una disputa accademica, fermandosi alle diversità dei termini e delle codifiche delle rispettive tradizioni, di fatto facendo quadrato – quasi paradossalmente – ciascuno attorno al proprio sistema di particolarità astratte, cioè non più viventi, non più incarnate ma incorniciate come un dipinto da guardare ma da non toccare?
Noi qui tocchiamo molto probabilmente un punto delicato, che in realtà si trova a monte di qualsiasi tentativo di traduzione e, nella traduzione, di dialogo tra persone appartenenti a culture e tradizioni diverse. Potremmo quasi dire che vi è un necessario preliminare al dialogo, e questo preliminare è il vivere al cuore della tradizione, della cultura e della lingua (anche intesa nel senso delle categorie intellettuali) con cui ci si esprime; vivere al cuore della tradizione significa impegnarsi a leggere ciò che passa nella propria esistenza secondo gli strumenti e la sapienza della tradizione, significa distendere la mens della tradizione su ciò che si vive, che si attende, su ciò di cui si soffre, su ciò di cui intensamente si gioisce; significa quindi rinnovare la tradizione, perché la si interroga continuamente dinanzi all’esperienza. Tutto questo, che effettivamente è vita, vita meditata del singolo – e certo del singolo inserito in una comunità – è ciò che potremmo chiamare «particolarità vivente». E con Šestov crediamo che Dio si pieghi sulla particolarità vivente, sulla persona, non su una categoria o su un’essenza.
Ciò che non è particolarità vivente, ma al contrario particolarità astratta è la semplice conoscenza di una tradizione, l’essere informati sulla storia, sugli usi sulle categorie intellettuali. Anche tutto questo è prezioso, ma non è manchevole dell’essenziale perché avvenga una traduzione: è manchevole di vita.
Volendo accogliere le preoccupazioni di Šestov ed insieme le acute osservazioni di Averincev noi potremmo forse dire che solo chi vive al cuore di una tradizione può riuscire nella traduzione e nella scoperta dell’universale, appunto perché conosce e sperimenta ciò di cui parla, ed è interessato a scoprire se l’altro ospita e coltiva le stesse cose, pur codificandole diversamente. È interessato a capire come vengono espressi altrove i propri vissuti, con quali sfumature, con quali ulteriori scorci. In una parola può tradurre e dialogare chi è interessato all’universale vivente, non certo chi intende ingaggiare una disputa per far prevalere la propria posizione.
Atene e Gerusalemme si incontrano – come ricorda Averincev – nella felice opera dei Settanta perché in quel momento prevale una traduzione ispirata, in cui due diversi mondi si adoperano perché i nuovi termini e le nuove categorie esprimano al meglio gli antichi concetti, e possono farlo perché appunto si tratta di uomini che, al di là della loro mitizzazione, certamente vivono la tradizione.
Non appena verrà meno l’intuizione del valore dell’universale vivente che impercettibilmente affiora, ecco che Atene e Gerusalemme si divideranno ancora, Gerusalemme si rinchiuderà su se stessa e sulla propria particolarità. Ma c’è da chiedersi se ormai questa particolarità non sia disseccata, non sia divenuta astratta.
Occorre ancora precisare qualcosa: cercare l’universalità vivente non è mirare a sincretismi artificiali. Il punto è che il risultato più interessante dello sforzo di traduzione è che ciascuno ritorni alla propria tradizione portando con sé qualche luce in più, in modo quasi da rendere più luminoso ciò che si è scoperto essere patrimonio condiviso tra gli uomini. Non è forse questa l’anima di quell’altra impresa di traduzione, molto più recente, che ha portato alla codifica dei Diritti universali dell’uomo? Uomini di tradizioni diverse, uomini appassionati che vivevano le rispettive tradizioni, sono riusciti ad esprimere insieme l’universalità vivente, tornando poi ciascuno alla propria storia ma portando con sé qualcosa dell’altro.
Ogni sforzo di traduzione trova la propria verità in questo movimento di andata e di ritorno, e probabilmente questo vale ad ogni livello: linguistico, culturale, filosofico e religioso. Maritain sottolineava tutto questo a proposito della reciproca apertura tra prospettive di pensiero:

Voglio notare, en passant, che una tale apertura presuppone uno sforzo dell’intelletto per trascendere, per un istante, il suo proprio linguaggio concettuale al fine di entrare nel linguaggio concettuale degli altri, ritornando poi da quel viaggio dopo aver colto l’intuizione di cui vive la filosofia nuova in questione».

Con Averincev possiamo allora chiederci se effettivamente l’Europa sia stata il luogo in cui Atene e Gerusalemme si sono nel tempo incontrate. Con Šestov possiamo condividere qualche preoccupazione.
Se osserviamo la storia è difficile negare che il cristianesimo abbia fatto emergere l’universale vivente differentemente celato in questi due principi creativi. Tuttavia, dinanzi alle sfide dell’oggi, la domanda che dobbiamo porci non è tanto se questo patrimonio storico sia o meno reale, ma se sono vive e vivaci le tradizioni che lo custodiscono; non solo, dobbiamo anche chiederci se l’Europa contemporanea sia fotografabile in termini di tradizioni viventi, perché forse questo è il vero problema del dialogo tra diversi.
Al pensiero che vorrebbe promuovere il dialogo attenuando le identità, al pensiero che propende per i sincretismi artificiali ed astratti (tra cui talvolta anche quelli delle Carte Costituzionali scritte con bilancino burocratico) occorre opporre una prospettiva di rivalorizzazione delle tradizioni; non si tratta però – come più spesso accade – di puntare su una valorizzazione tutta concentrata sui simboli esteriori: occorre alimentare la particolarità vivente, incoraggiare alla riscoperta della propria tradizione, ad attestarsi al cuore di essa nel vivere, perché questo è il presupposto dell’incontrarsi e del dialogare. Occorre far capire che l’universalità a cui può tendere l’Europa non è l’universalità astratta delle regole o della media delle aspirazioni nazionali: ben più profondamente è l’universalità vivente data dal patrimonio incarnato di senso dell’umano e del divino che ciascuna tradizione a proprio modo coglie ed a proprio modo esprime.
Paradossalmente diremo persino che se vogliamo trovare ciò che ci accomuna, se vogliamo scoprire l’universale vivente e su questo costruire una casa comune – comune ed aperta ad altre tradizioni – il passo da fare è quello che ci conduce risolutamente ciascuno a rivitalizzare la propria particolarità, ad esplicitare il proprio vivere la tradizione nel confronto con altre tradizioni. Ancora una volta rientrare in se stessi (e nella propria tradizione) è il modo migliore per dialogare con gli altri.

Ho voluto raccogliere queste suggestioni da Averincev e più marginalmente da Šestov, provando ad esprimerle secondo la forma mentis che mi è più propria, in cui si trova molto Maritain e più profondamente ancora San Tommaso. A tutti è chiaro che non si tratta di una ricostruzione di ciò che ciascuno di questi autori potevano pensare del rapporto tra fede e ragione, tra religione e filosofia: piuttosto si tratta della sforzo – sempre appassionante – di pensare in compagnia di voci diverse, provando a captarne le intuizioni ed a lasciarsi provocare. Nessuno però creda che questo sia un gioco: la possibilità e la modalità dell’incontro tra diversi è uno dei «casi seri» della vita dell’uomo, su cui è e sarà importante continuare a riflettere e soprattutto ad esercitarci assieme.
* g.grandi@maritain.eu
S. Averincev, Atene e Gerusalemme. Contrapposizione e incontro di due principi creativi (1971-1973), Donzelli, Roma, 1998.
Op. cit., p. 11.
Cfr. Op. cit., pp. 40-41.
Op. cit., p. 48.
Non considereremo in questa riflessione il notevole apporto di P. Ricoeur al tema della traduzione, se non segnalando qui in nota, tra i tanti scritti, il saggio La traduction, un choix culturel, in “Esprit”, n. 6, juin 1999, pp. 8-19, riproposto recentemente in traduzione italiana con il titolo Il paradigma della traduzione, in Il giusto/2, Effatà, Torino, 2007, pp. 133-149. Di fatto si coglierà come gli autori con cui qui ci si confronta abbiano tematizzato i medesimi snodi, forse con qualche affondo più deciso dovuto alla loro maggiore disponibilità per una riflessione di tipo ontologico.
Il rapporto tra dialetto e lingua rinvia sommessamente alla cornice proposta da J. Habermas, secondo cui – in fin dei conti – le prospettive culturali ed intellettuali facenti capo a tradizioni di fede (Gerusalemme) sarebbero dialetti che, per farsi intendere nella polis, dovrebbero accettare di essere tradotti in termini laici (Atene), ovvero nell’unica lingua universale. Non ci soffermiamo su questa proposa, se non sollevando il dubbio che questa impostazione forse interessante dal punto di vista metodologico, di fatto porta con sé una certa precomprensione dei rapporti tra credenti e non credenti, quasi che i primi fossero la preistoria del pensare ed i secondi il suo progresso. Vi è l’idea che l’autentica prospettiva universale, a cui le altre vanno ricondotte, sia quella del non-credente: in quest’ottica ciò che si confonde facilmente è l’impegno per una argomentazione ragionevole (che è di tutti, ed anche dei credenti dacché sviluppano una teologia) con i contenuti ed il messaggio oggetto della comunicazione (ed in questo caso anche il non-credente di fatto si affida ad una ontologia, che il più delle volte non è in grado di esplicitare ed a cui, tecnicamente, crede). Ecco a tal proposito un cenno significativo di Habermas: «Ciascuno deve sapere ed accettare che oltre la soglia istituzionale che separa la sfera pubblica informale da parlamenti, tribunali, ministeri e amministrazioni, contano solo le ragioni laiche. È sufficiente a questo scopo la capacità epistemica di considerare le proprie convinzioni religiose anche dall’esterno, riflessivamente, e di collegarle a ragioni laiche. I cittadini credenti possono benissimo riconoscere questa “riserva istituzionale di traduzione” senza dover scindere la loro identità in parti pubbliche e private non appena partecipino a pubbliche discussioni. Essi dovrebbero quindi poter esprimere e motivare le loro convinzioni in un linguaggio religioso anche quando non trovano per esse “traduzioni” laiche. Ciò non deve assolutamente estraniare i cittadini “monoglotti” dal processo decisionale della politica, perché anche quando adducono ragioni religiose, essi prendono posizione con intento politico. Anche quando il linguaggio religioso è l’unico che essi parlano, e quando le opinioni motivate religiosamente sono l’unico contributo che sanno o vogliono dare al dibattito politico, essi si sentono membri di una civitas terrena che li legittima come autori delle leggi cui sono soggetti come destinatari. Poiché hanno la facoltà di esprimersi in linguaggio religioso solo a condizione di riconoscere la riserva istituzionale di traduzione, essi, fidando nell’opera cooperativa di traduzione dei loro concittadini, possono sentirsi partecipi del processo legislativo, anche se in esso contano solo le ragioni laiche». Cfr. J. Habermas, Zwischen Naturalismus und Religion. Philosophische Aufsätze, Suhrkampo Verlag, Frankfurt am Main, 2005; tr. it.: Tra scienza e fede (2005), Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 33-34.
Op. cit., p. 14.
Op. cit., p. 58.
L. Šestov, Atene e Gerusalemme (1923-1935), Bompiani, Milano, 2005, p. 115.
Op. cit., p. 131.
Op. cit., p. 939.
Op. cit., p. 941.
J. Maritain, Tolleranza e verità (1957), in Il filosofo nella società (1960), Morcelliana, Brescia, 1976, p. 62.
«Per l’ebreo credente, permeato delle idee sulla santità dell’incarnazione orale e scritta del verbo divino, la seconda nascita della Torah rappresentava un avvenimento tanto importante , da porre il suo intelletto di fronte a una scelta: vedere in  quanto si era verificato un sacrilegio o un miracolo. Gli ebrei di quell’epoca preferirono considerare i Septuaginta un miracolo, una nuova manifestazione della rivelazione. […] Per gli autori giudaici del I secolo d. C. i Septuaginta sono la Scrittura autorevole, in tutto il senso religioso del termine. A ciò si giunge attraverso seri progressi nello spirito stesso del giudaismo: nell’epoca dell’ellenismo e nei primi decenni dopo la nascita di Cristo questo spirito era così universalistico e vasto come mai in precedenza e mai successivamente». Cfr. S. Averincev, Atene e Gerusalemme (1971-1973), cit., pp. 51-52.
«Solo quando la tragedia delle due guerre giudaiche (66-73 d.C. e 132-135 d.C.) pose fine ai sogni universalistici, e i circoli rabbinici, bruscamente rinserratisi nella propria esclusività nazionale, si trovarono a dover disputare con gli eredi degli universalisti alessandrini, i cristiani, l’atteggiamento del giudaismo ortodosso verso i Septuaginta mutò nettamente». S. Averincev, Atene e Gerusalemme (1971-1973), cit., p. 52.
Al tempo stesso non è da trascurare il fatto che proprio lì dove viene meno l’attenzione genuina all’umano ed alla sua piena realizzazione, anche lo sforzo di traduzione viene compromesso. È accaduto qualcosa di simile all’atto della traduzione della Carta dei Diritti nella lingua russa: lì alcune pressioni ideologiche hanno prodotto una resa terminologica diretta non più a tradurre i concetti (l’universale vivente) ma a tradirla. E tuttavia proprio la possibilità di un tradimento è un’ulteriore segno che l’universale vivente è stato colto, ma appunto si è voluto ignorarlo o cancellarlo.
Op. cit., p. 44.
«Gli interpreti alessandrini non risolsero il problema, superiore alle loro forze, della sintesi tra “Atene” e “Gerusalemme”; saremo loro grati per averlo almeno posto. A risolverlo doveva essere, con tutta la sua esistenza, la cultura europea». S. Averincev, Atene e Gerusalemme (1971-1973), cit, p. 63.

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